venerdì 6 novembre 2009

Non finis quaerendi

Interrogati noi stessi, ci siamo detti che nulla ha perso in attualità e importanza l’affermazione del celebre abate benedettino di Solesmes, dom Prosper Guéranger (1805-1875), secondo il quale: “Nella liturgia lo Spirito che ispirò le Scritture parla ancora; la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità”.
Il riferimento a dom Guéranger non è del tutto casuale. D’altro canto, e ripetutamente, la Chiesa ha puntualmente ricordato il ruolo di primo piano “dei monaci e delle monache” (Benedetto XVI, motu proprio Summorum pontificum) nella cura dell’offerta alla Divina Maestà di un culto degno, “a lode e gloria del Suo nome” e “ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa”. Operando “sotto la Regola di san Benedetto, dovunque unitamente all’annuncio del Vangelo [costoro] illustrarono con la loro vita la salutare massima della Regola: ‘Nulla venga preposto all’opera di Dio’ (cap. 43)” (ibid.).
Questi pensieri ci accompagnano mentre, ancora una volta, riflettiamo sulle possibilità di un “nuovo movimento liturgico”. Esso prenderà vita, o l’ha già presa? E rientra nei suoi compiti la considerazione di una “riforma della riforma”? Allo stato attuale, pare che esso si collochi più nei cuori che s’interrogano sul ruolo della liturgia nella vita dei cristiani e della Chiesa, che in istanze a ciò preposte. Forse è un bene che sia così, posto il luogo che la liturgia occupa e deve occupare: il cuore, appunto.
In quest’ottica, un orizzonte spirituale ci è offerto dalla ruminazione di un’anima consacrata che lo Spirito ha chiamato a essere lievito della “riforma della riforma”, qualsiasi cosa Dio vorrà che tale “riforma” debba essere. La traccia è in uno scritto profetico dell’Antico Testamento – verrebbe da dire, Ecriture d’abord! –, che riportiamo: “Così dice il Signore: ‘Fermatevi nelle strade e guardate, informatevi dei sentieri del passato, dove sta la strada buona percorretela, così troverete pace per la vostra vita’” (Ger 6,16).
Eccoci, come sempre e come ciascuno, per via nella strada, alla ricerca di pace per la nostra vita, quindi alla ricerca dell’unica Pace, che è Dio ed è in Dio. Guardiamo, c’informiamo, onde percorrere la buona strada. Non vogliamo assolutizzare nulla; non abbiamo bisogno di idoli.
Viandanti e rustici peccatori, ci accompagna nell’escursione il Vicario di Cristo. Che in altra veste – non ancora cioè preposto a pascere il gregge affidatogli dal Signore, ma pur sempre nella veste di colui che sarà chiamato a pascerlo, e anch’egli facente parte della compagnia itinerante – sembra non avere mai smesso di riflettere sulla liturgia. Così si esprimeva, privatamente ma chiaramente: “Adesso occorre avanzare passo dopo passo, giacché ogni nuova precipitazione non produrrà buoni risultati. Credo tuttavia, che in avvenire la Chiesa romana dovrà avere nuovamente un solo rito, essendo difficilmente ‘gestibile’ nella pratica, per i vescovi e i sacerdoti, l’esistenza di due riti ufficiali. Il rito romano del futuro dovrebbe essere uno solo, celebrato in latino o in vernacolo, ma interamente fondato nella tradizione del rito antico. Esso potrebbe integrare qualche elemento nuovo che si è sperimentato valido, come le nuove Feste, alcuni nuovi Prefazi della Messa, un Lezionario esteso – una maggiore scelta di prima, ma non troppa –, una Oratio fidelium, cioè una litania di preghiere d’intercessione dopo l’Oremus dell’Offertorio, dove in precedenza aveva la sua collocazione” (card. Joseph Ratzinger, lettera del 23 giugno 2003 al prof. Heinz-Lothar Barth).
Recependo espressamente la riflessione dell’allora card. Ratzinger, in un intervento del 18 agosto 2007 comparso sul quotidiano francese Présent, dom Louis-Marie Geyer d’Orth – abate del monastero di Le Barroux – constatava: “Quando si guarda alla storia della Chiesa, si constatano due tendenze. La prima è quella dell’unità del rito. (…) Per fare questo, servirà tempo e lavoro negli spiriti e nei testi. Un primo cantiere sarebbe quello di ridurre gli abusi da una parte e dall’altra, come si può riassumere con le parole del filosofo Gustave Thibon: ‘Non assolutizzare ciò che è relativo e non relativizzare ciò che è assoluto’; un secondo cantiere sarebbero taluni ritocchi nella ‘forma straordinaria’ come, per esempio, l’adozione di nuovi Prefazi e di nuovi santi, la possibilità delle letture in vernacolare e l’applicazione di alcune modifiche del 1964 e 1965, come dom Gérard ha fatto nel nostro monastero (…). D’altra parte, dev’essere promossa una riforma della riforma nella forma ordinaria del rito, comprensiva di un più ampio uso del latino, una più grande sacralità nei gesti, una ben maggiore precisione, un più ampio rispetto delle regole e soprattutto una manifestazione più netta della fede nella presenza reale. Rimane tuttavia uno spazio fra le due forme che mi sembra difficile ridurre totalmente. Riassumendo, riprendo l’espressione di dom François Cassingena-Trévedy, il quale presenta il messale del 1962 come quello del Cielo sulla terra (…) e quello del 1969 come del Cielo per la terra (…). Se si vuole ritrovare un’unità, occorrerà rimaneggiare tutto, ma progressivamente, onde non ricominciare una rivoluzione cerebrale e legalista. Ciò che mi appare tuttavia difficile. Comunque, io non ritengo che l’unità del rito sia un’esigenza per la Chiesa. La seconda tendenza che si constata nella storia è quella della pluralità dei riti. Basti pensare alla ventina di riti orientali e ai diversi riti latini (…). La forma straordinaria del rito romano può coesistere pienamente con la forma ordinaria, con la missione propria e indispensabile d’esprimere che, con la forma ordinaria, non si vuole rinnegare né il passato né il sacro. Il motu proprio Summorum pontificum, in qualche misura, vieta di celebrare il nuovo rito con uno spirito di rottura verso quello antico”.
La liturgia è azione di Cristo e della Chiesa; un dramma nel quale ci si cala e al quale si conforma il proprio modo di pensare, che scolpisce la nostra vita interiore, per mezzo di verità che i testi e i gesti veicolano – spesso in maniera simbolica o poetica – affinché eleviamo il nostro spirito a Dio e ci disponiamo a ricevere il suo amore nei suoi sacramenti. La Regola di san Benedetto c’intima non a caso in tal senso: “partecipiamo alla salmodia in modo tale che l’intima disposizione dell’animo si armonizzi con la nostra voce” (RB XIX,7).

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