venerdì 15 gennaio 2010

Una lettura teologica della Regula Benedicti / ultima parte

Il primato di Cristo. Nihil amori Christi praeponere (RB 4, 21). Indubbiamente san Benedetto sa che la nostra affettività, che il nostro impegno si ramifica in tanti rapporti. Il cuore del cristiano è il cuore di uno che ama tutti e ama tutto, tranne il peccato. Là dove c’è il peccato, e quindi dove c’è la menzogna, là dove c’è la mancanza di carità, non ama; ma tutto quello che c’è è oggetto dell’amore di un cristiano. Però in questa ramificazione affettiva il primato dev’essere quello di Cristo. Non può amare di più qualche altra cosa. Cristo non lo si deve posporre mai, ma deve avere l’assoluta precedenza. In fondo non è che l’affermazione già fatta. Se nessuno e nulla deve stare più a cuore di Cristo, è chiaro che nessuno deve precedere Cristo nell’impegno affettivo del monaco.
Per capire bene la Regula Benedicti bisogna andare a pescare queste che non sono tanto delle frasi, sono molto di più. Sono i dati principali; poi per il carattere pratico troviamo capitoli e capitoli, per esempio, su come distribuire la salmodia.
La rinuncia a se stesso vuol dire il collocare se stessi non in funzione assoluta ma in funzione di dipendenza rispetto a Gesù Cristo. Abnegare semetipsum sibi ut sequatur Christi. Per la sequela di Cristo, quindi il primato di Gesù diventa operativo, mette in moto una scelta, un cammino. Questo è ciò che caratterizza il discepolo di Gesù. Il cristiano è uno che precisamente dice di no a se stesso per seguire Cristo. Il monaco fa il cristiano mettendo in pratica questo mandato evangelico: diventare discepolo del Signore. Il monaco è il discepolo del Signore.
La sequela di Cristo come condizione e come esperienza di libertà o di liberazione. La rinuncia non vale per se stessa; ha valore se libera il cuore, se rende spedita la vita.
Altro elemento che mette in relazione con le radici cristiane evangeliche è la presentazione della vita monastica come un dominicum servitium, un mettersi a servire Dio, il Signore. Il concetto del servo è importante. Non con quella connotazione negativa che può avere il concetto di servo. Il servire Cristo, l’essere al servizio di Dio, l’essere alla schola dominici servitii. Il monastero è il luogo dove si impara a essere servi di Dio, servi del Signore. Il tema del servizio al Signore è un tema propriamente evangelico, però è un servizio di liberazione, che promuove l’identità, dice tutta la dipendenza del Signore e l’umiltà profonda. Possiamo evocare nel testo del Prologo 45 tutta la tematica evangelica del servizio, che domanda fedeltà, operosità, vigilanza, attesa della remunerazione dal Signore; servizio che lega la vita al comando di Dio. Servizio che ci fa diventare operarii Domini (Prologo). Allora si è in monastero per lavorare, ma la laboriosità monastica ha una sua caratteristica tutta particolare: il monaco non è colui il quale ha trovato uno stato tranquillo di vita. La Regola potrebbe essere un pericolo nella misura in cui è osservata: se l’osservanza dovesse creare una specie di passività senza iniziativa, occorre inventiva all’interno del monastero; non vuol dire capriccio, arbitrio. La laboriosità monastica, l’iniziativa, richiama la parabola di coloro che hanno ricevuto dei talenti e operosamente li hanno trafficati rispetto a colui il quale lo ha sepolto perché così non ha né lavorato, né rischiato. I monaci sono degli operai del Signore e quindi lavorano, si danno da fare. Proprio perché è Gesù il Signore, non si pretende nessun anticipo di paga e soprattutto non si aspetta di essere remunerati da altri signori. C’è un solo Signore, proprio perché lui sta al primo posto e consuma tutta la potenza affettiva del monaco, allora dal Signore ci si aspetta tutto, quando lui verrà. Da qui viene questa evangelica vigilanza, questa attesa che torni lui perché sarà lui a remunerare. Questo viene a introdurre nella vita spirituale del monaco un senso di indipendenza profonda, indipendenza interiore perché è il mio Signore, il mio datore di lavoro che mi giudicherà e mi remunererà. È lui che devo aspettare, tutto quanto è fatto al di fuori di questa prospettiva è segno che altri padroni prendono il posto di lui, allora il mio lavoro è fatto per loro, ecco allora l’ansia di essere subito pagato. Ma Gesù remunera alla fine del mondo, alla fine della vita. Ecco allora la trasposizione del senso della vita monastica in senso escatologico, alla fine.
La presentazione della vita monastica come un impegno militare. I monaci sono dei servi del Signore, sono operarii Domini. In Prologo 3 la prospettiva, l’immagine diventa quella della vita monastica come un servizio militare, una milizia. Domino Christo vero regi militari. La visione della vita cristiana come lotta, impegno. San Paolo mette in luce questa necessità dell’equipaggiamento militare spirituale del cristiano. Il monaco andando in monastero sa che non affronta una vita serena, ma una vita militare, dove la lotta è lo stato normale ma dove le armi con cui si combatte sono le armi evangeliche; dove il re, il conduttore è Gesù Cristo. Cristo Re: il tema della regalità di Cristo che tornerà particolarmente nell’Ordine dei Gesuiti, in realtà è preceduto nella Regula Benedicti. La vita monastica è vista come un militare agli ordini, alle dipendenze di Cristo Re, di Cristo vero Re.
Occorre sostanziare, animare di valore evangelico questa immagine, la quale è una presentazione autentica di Gesù in quella sua regalità che sorprendentemente è la regalità del servizio ultimo, la regalità della croce. Regnavit a ligno Deus. Cristo vive e rappresenta la sua regalità attraverso la croce, cioè attraverso il servizio. Il Dominicum servitium è la regalitas domenica. Vivendo la vita monastica come un servizio, si vive la vita monastica come condivisione della regalità del Signore. Il luogo, la forma della regalità che è servizio e del servizio regale è la carità, la quale porta sempre l’impronta della croce. Gesù si è mostrato re proprio morendo in croce; la croce che diventa trono. Gesù che è presentato da Pilato con la corona di spine, lo scettro in mano, con la canna, e su una sedia come era quella del giudice. L’apparenza è la burla, la realtà è invece la regalità autentica secondo il disegno di Dio. Il monaco si mette a seguire Cristo Re sulla strada precisamente della croce e del servizio della carità. La sua militanza è dietro a questo Re.
La vita monastica come una lotta, un’agonia sostenuta, come dice Paolo, nei confronti delle potenze delle tenebre. Del resto Gesù stesso parlava delle potenze delle tenebre, contro cui ha lottato attraverso la sua passione. Il monaco non è uno che s’illuda che la vita spirituale sia un’esperienza tranquilla; egli si dispone alla lotta perché questa fa parte della definizione della figura della vita cristiana e quindi non può non far parte, questo aspetto agonistico, della vita monastica. La vita monastica è una vita di lotta, dove si vive la condizione del militare, della milizia.
Proprio perché Cristo è amato più di tutti, sta al primo posto; perché lui è il Re e lo si vuole seguire nell’operoso discepolato, ecco allora che il monaco si dispone a partecipare alle passioni di Cristo, passionibus Christi partecipare, partecipazione ai misteri di Gesù Cristo (Prologo 50). Nella misura in cui l’affetto che lega Cristo vuol essere vero, allora non può non avere come risultanza la condivisione dei misteri e particolarmente la condivisione del mistero della passione. Il monaco manifesta tutta la sua disponibilità a rivivere la passione di Cristo mediante una imitazione reale. Il legame affettivo prende consistenza e verità in questo essere disposti, in questo volere prendere parte alla morte del Signore.
Altro squarcio evangelico propriamente cristiano: bisogna prendere la propria croce e andar dietro a Cristo crocifisso, al Cristo che va in croce. È così che si è discepoli. Quanto a Paolo, presenta proprio la vita cristiana come una reviviscenza del mistero della morte di Gesù per la sua risurrezione. Secondo Paolo, il cristiano è uno che è dentro, installato, collocato dentro la passione del Signore, questa è la conseguenza o la natura realistica del battesimo. La vita cristiana allora è una vita da crocifisso. Paolo si presenta come colui dove la passione di Cristo si rivive, non soltanto, non compiutamente nel sacramento dell’Eucaristia, ma nel sacramento dell’Eucaristia che ha la forza di attrarre a far si che la passione di Cristo sia presente nella vita. Tutta la consumazione della vita monastica come passione del Signore.
La vita monastica è un ritorno a Dio da cui (Prologo 2) ci si è allontanati col peccato, attraverso il cammino laborioso dell’obbedienza, attraverso la comunione con il mistero della passione del Signore, della sequela di lui attraverso il servizio e la militanza in dipendenza da Cristo Re.
Chi è il soggetto della vita monastica? È l’uomo alienato che è in viaggio verso la sua identità e l’uomo difforme inteso a diventare conforme, è l’uomo lontano che intende diventare vicino, è l’Adamo vecchio che vuol trasformarsi nell’Adamo nuovo. In maniera sintetica, dal capitolo 58,7: il monaco è colui il quale veramente e non illusoriamente, operosamente e non pigramente, cerca Dio. Cerca Dio che fu invece disatteso da Adamo, cerca di vedere Dio da cui invece Adamo si nascose a motivo del peccato. La vita monastica è tutta una ricerca di Dio.
“Ascolta, figlio mio, i precetti del maestro, piega l’orecchio del tuo cuore. Accogli con docilità [con gioia] e metti concretamente in pratica gli ammonimenti che ti vengono da un padre pieno di comprensione perché tu possa per la fatica dell’obbedienza [da notare che la passione di Cristo è presentata come obbedienza al Padre] tornare a colui dal quale ti eri allontanato per l’inerzia della disobbedienza, [il peccato, il distacco dal mistero di Dio, dalla sua volontà]. Queste mie parole si rivolgono a te che deciso a rinunziare alle tue volontà per prestare servizio sotto il vero re, Cristo Signore, sei disposto a brandire le armi dell’obbedienza invincibili e gloriose sopra tutto”.

[Trascrizione di una conferenza spirituale del prof. don Inos Biffi presso il Monastero San Benedetto di Bergamo / 3 - fine]

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