lunedì 28 giugno 2010

La bellezza della liturgia

[Del tutto recentemente abbiamo offerto l'estratto di un libro del monaco benedettino Dom François Cassingena-Trévedy, auspicandone la pubblicazione integrale da parte di qualche editore sensibile e lungimirante. Contemporaneamente, la rivista Cristianità. Organo ufficiale di Alleanza Cattolica, ha pubblicato nell'ultimo fascicolo (anno XXXVIII, n. 356, Piacenza aprile-giugno 2010, pp. 67-70) una recensione di Stefano Chiappalone a un precedente studio di Dom Cassingena-Trévedy, La bellezza della liturgia (trad. it., Edizioni Qiqajon, Magnano 2003, pp. 118). Con l'autorizzazione della rivista Cristianità pubblichiamo l'integralità di questo importante articolo.]


In diverse occasioni Papa Benedetto XVI ha indicato come modelli della liturgia gli angeli e, di conseguenza, quanti vivono continuamente alla presenza di Dio — come queste creature celesti — celebrando incessantemente la liturgia con la loro stessa vita: i monaci. Ed è proprio un monaco benedettino a mostrarci ciò — anzi, Colui — che allo stesso tempo si nasconde e si rivela nei divini misteri. L’autore, padre François Cassingena-Trévedy, di nazionalità francese ma nato a Roma nel 1959, si è laureato in Filologia all’École Normale Supérieure di Parigi nel 1980 e nel medesimo anno ha abbracciato la vita monastica. Ordinato sacerdote nel 1988, l’anno seguente si è laureato in Teologia presso l’università di Friburgo, in Svizzera. Attualmente risiede nell’abbazia di Saint-Martin de Ligugé, presso Poitiers, in Francia, dove svolge l’ufficio di maestro dei novizi. Studioso di discipline liturgiche e patristiche, in particolare dell’opera di sant’Efrem il Siro (306-373) — che ha curato per conto delle Sources Chrétiennes —, insegna all’Institut Catholique de Paris ed è autore di numerosi saggi e libri, fra i quali La liturgie, art et métier e Te igitur. Autour du Missel de S. Pie V (entrambi editi da Ad Solem, Ginevra 2007) e Les Pères de l’Eglise et la liturgie (DDB. Institut Catholique de Paris, Parigi 2009).
Il saggio Jalons pour un esthétique de la liturgie, apparso nel n. 116, del 2001, della rivista Liturgie della Commission Francophone Cistercienne, viene pubblicato autonomamente in traduzione italiana con il titolo La bellezza della liturgia, che, prima di qualsiasi ulteriore valutazione, è sostanzialmente la bellezza di Cristo, «il più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45 [44], 3).
Già nella Premessa (pp. 7-11) l’autore chiarisce che solo a partire da qui, andando alla radice della liturgia, possiamo aprirci alla sua vera essenza, superando il soggettivismo e la dittatura del gusto che talvolta accomuna i fautori delle più variegate tipologie di Messa: «Nell’era dei centri commerciali si va a cercare anche nel supermercato ecclesiale ciò che si trova di conveniente. Sottile e perfido ribaltamento dei fini. Quella che nei primi secoli del cristianesimo veniva chiamata opus Dei, l’opera di Dio, tende a diventare un genere di consumo tra tanti altri» (p. 9).
Nel primo capitolo emerge il nesso primordiale, essenziale, fra Liturgia e sacramentalità (pp. 13-22): la ragion d’essere della liturgia, infatti, «[...] è sempre legata a qualche sacramento, ogni volta è un sacramento quello che celebra, che accompagna, al quale fa da contesto» (p. 13); anche nel caso della liturgia delle ore, il cui stretto legame con la Messa non fa che continuarne instancabilmente la celebrazione. Ma prima ancora dei singoli sacramenti vi è la «sacramentalità fondamentale e antecedente» (p. 15), la «sacramentalità indifferenziata, primitiva» (p. 16) data dalla presenza operante e attiva di Cristo.
Presenza operante e attiva, dunque, non vaga o parolaia, poiché la liturgia è fatta anche di parole, ma mai fini a sé stesse, sempre volte a conseguire un effetto concreto, in quanto — e siamo al secondo capitolo, Una cristologia del gesto (pp. 23-53) — legate indissolubilmente ai gesti fondamentali di Colui che è «[...] il Gesto di Dio verso di noi, Cristo. L’estetica liturgica si fonda su una cristologia del gesto» (p. 27). «Attraverso la celebrazione liturgica dei sacramenti e l’insieme dei gesti concreti che questa richiede, la chiesa non fa nient’altro che prolungare, attualizzare i gesti di Cristo» (pp. 28-29). Pertanto l’autore definisce la liturgia stessa come «[...] un bel gesto di Cristo che coordina a sé i nostri gesti» (p. 30). Il Canone Romano — o prex eucaristica — che parla di sanctas ac venerabiles manus, «mani sante e venerabili», e di praeclarum calicem, «glorioso calice», offre un compendio della bellezza e della maestà del gesto supremo di Cristo. Non si tratta però di una bellezza soltanto plastica, esteriore. «In questo caso Cristo non sarebbe stato l’unico a fare dei bei gesti. Dopo tutto l’arte statuaria della Grecia classica ne ha immortalati anch’essa parecchi, e di molto belli» (p. 34). Nei gesti di Cristo invece si manifesta una bellezza superiore che viene dall’alto — et elevatis oculis in caelum —, l’aisthetòn ultimo «[...] che si chiama Grazia, Salvezza, Amore, Vita» (p. 36) e non può prescindere dal lògos della croce che — stravolgendo e superando i nostri criteri — opera una vera e propria pasqua estetica: «Il Bello muore sulla croce, sfigurato, ed è proprio da quella morte che resuscita, paradossale, la vera bellezza; è proprio in quella morte che si manifesta la bellezza autentica» (p. 39). L’arte stessa per entrare nel santuario non può aggirare la vera Bellezza che scaturisce dalla croce, anzi deve lasciarsi permeare dalla logica della Pasqua, la logica suprema dell’Amore che la Chiesa presenta nella liturgia: «Le mani sono “sante e venerabili” proprio perché sono quelle dell’Amore, e il calice è “bello” molto semplicemente perché è l’Amore che lo prende in mano» (p. 45). Dal «bel gesto» di Cristo scaturisce anche un nuovo ordine per i nostri gesti, il loro tempo, il loro spazio, poiché «la liturgia è tutto lo spazio di cui Cristo ha bisogno per esprimersi, tutto il tempo che gli serve per raccontare se stesso» (p. 53).
Argomento del lungo capitolo successivo è L’ordine (pp. 55-108): fin dall’inizio della creazione vediamo un Dio che mette ordine e tanto nell’Antico quanto nel Nuovo Testamento viene continuamente ribadito il carattere gerarchico della liturgia, che realizza la connessione etimologica fra ornare e ordinare, e di cui la regola aurea enunciata da san Paolo offre un efficace compendio: «“Tutto avvenga decorosamente (euschemónos) e con ordine (katà táxin)” (1 Cor 14, 40)» (p. 61). Tale principio guiderà persino la risurrezione dei morti nell’ultimo giorno (cfr. 1 Cor 15, 22-23), poiché costoro in fondo risorgono al fine di celebrare una liturgia eterna. «Il mondo dei risorti, che si costituisce attorno a Cristo principio di vita, appare dunque come un mondo ordinato, e in quanto tale atto a eseguire quella liturgia concentrica, scaglionata in diversi livelli, che l’Apocalisse descrive» (pp. 62-63). I Padri della Chiesa insisteranno proprio sull’ordine e sull’armonia della liturgia, espressi nei ministeri, negli spazi, nei canti, nella dottrina. «Naturalmente ci sarà chi vorrà individuare, in questa costante attenzione dei padri all’ordine, un tratto caratteristico della loro cultura greca: libero di farlo; resta comunque il fatto che tale elemento si è incontrato con la rivelazione, che la chiesa l’ha assimilato in profondità, l’ha accolto, e che per noi non è più possibile prenderlo alla leggera sacrificandolo alle rivendicazioni dell’individualismo moderno, ordinariamente egualitaristico e anarchico, che del resto si è fatto strada solo in questi ultimi decenni, anche in ambito liturgico» (p. 73). La liturgia in realtà non fa che ristabilire quell’ordine primordiale, a cui ogni uomo tende naturalmente poiché è la cifra che lo stesso Creatore ha iscritto nella creazione.
Essa ordina innanzitutto il tempo, se ne appropria per riempirlo di significato, riproponendo attraverso i vari cicli — il ciclo delle ore diurne, l’anno liturgico e le feste dei santi — il mistero multiforme di Cristo e inculcandolo sempre più profondamente in noi mediante un movimento a spirale che concilia ciclicità e progresso, mediante «una sorta di rivoluzione copernicana attorno al mistero di Cristo» (p. 80), che conferisce così un senso a un tempo altrimenti in balia dell’assurdo.
La liturgia instaura e si appropria di un nuovo ordine anche nello spazio e nelle realtà materiali. Nella Gerusalemme celeste ci sono angeli agrimensori e geometri (cfr. Ap 21, 15ss.): «Che lo Spirito divino [...] sia anche Spirito di geometria?» (p. 83). In fondo Dio stesso afferma che non Lo si può incontrare nel caos senza forma (cfr. Is 45, 19) e la stessa creazione pertanto si configura come un kósmos di cui la chiesa è simbolo: «[...] essa comprende il divino santuario come un cielo, e in aggiunta a esso è disposto il corpo centrale dell’edificio (la navata) come una terra» (San Massimo il Confessore [580-662], cit. pp. 85-86). La liturgia chiama a raccolta e porta a compimento tutta la creazione, niente in essa ha una funzione puramente decorativa, anzi tutti gli elementi — pane, vino, acqua, fuoco e così via — del mondo diventano addirittura co-liturghi. «Altrimenti che senso avrebbero i salmi cosmici che recitiamo ogni giorno a coronamento delle lodi? [...] Qui si tocca con mano la facoltà simbolica della liturgia, non solo nel senso che essa utilizza le realtà del mondo sensibile come simboli, ma anche nel senso che essa “raccoglie” la creazione e la ricapitola» (pp. 88-89). In tal senso la liturgia è il vero «ecosistema», che inaugura l’equilibrio escatologico in cui ogni elemento troverà il proprio posto.
A maggior ragione questo nuovo ordine riguarda gli uomini e non è casuale il legame fra vocabolario liturgico e vocabolario militare, poiché il popolo di Dio non è «un popolo informe e caotico, malgrado le rivendicazioni egualitarie di un certo anarchismo ecclesiale» (pp. 91-92), che non tiene conto della necessità del battesimo e del sacerdozio ordinato, della struttura che Dio stesso ha voluto. «Insomma, la liturgia presuppone il sacramento dell’ordine, o l’ordine come sacramento» (p. 92), e questo si riflette inevitabilmente anche nel cuore del singolo uomo, instaurando un momento di pace e spostando il centro di gravità dall’io a Dio.
Infine nella liturgia, che è il luogo proprio dell’esegesi biblica, la Sacra Scrittura, suddivisa, organizzata e «attuata» attorno ai diversi misteri celebrati, rivela il suo mistico ordine, quell’ordine che a noi peccatori, lasciati al nostro senso «privato», rimarrebbe irrimediabilmente nascosto. Così come avviene per il tempo, lo spazio e l’uomo, la liturgia «[...] fa emergere la vera struttura e l’elemento formale di tale struttura, che è di ordine cristocentrico; essa organizza il corpo della rivelazione scritta attorno al suo asse: Cristo salvatore» (p. 102). È infatti in ambito liturgico che si è formato il canone della Scrittura — sia l’Antico sia il Nuovo Testamento —, che non è un libro morto da analizzare filologicamente dall’inizio alla fine, bensì da leggere in quello che il poeta francese Paul Claudel (1868-1955) definisce «l’enorme edificio della liturgia» (cit. p. 103) innalzato dalla Chiesa che, «[...] come un poeta straordinario, ha preso da ogni parte frammenti dei padri, della Bibbia, dei racconti agiografici, degli scritti poetici, per farne una costruzione viva nella quale sono impiegate armonicamente tutte le ricchezze dell’universo in un inno di gloria al Creatore» (ibidem). È il risultato di un ordine che ha a che fare con la bellezza, ma anche con il precetto, poiché «[...] non c’è liturgia autentica senza docilità intelligentemente scrupolosa alle rubriche» (p. 105) e «non esiste estetica liturgica che possa eludere il carattere normativo della liturgia» (ibidem).
«Ordine infine nel senso di ordinamento a un fine» (p. 106), cioè la perenne liturgia cui saremo chiamati nella Gerusalemme celeste, che in ultima analisi è l’epifania dell’Amore di Cristo, dalla cui iniziativa e non dalle nostre invenzioni scaturisce la vera bellezza. Questa infatti non è una bellezza qualunque, è La bellezza di Dio (pp. 109-114) e il suo splendore è tale da risultare in qualche modo «tremendo» (phriktós), da suscitare profonda impressione; e proprio da qui deriva il suo potenziale missionario, in quanto manifestazione di una Realtà che ci supera, e che tuttavia «[...] proprio allora, paradossalmente, diventa vicina» (p. 114).
Nelle pagine finali — Dove si intrufolano gli angeli (pp. 115-118) — l’autore raccomanda un particolare canone estetico che richiama molto da vicino quello spirito «angelico» della liturgia caro a Papa Benedetto XVI: l’ariosità. «Non ci sia nulla, in essa, di troppo sacrificato o di troppo pesante e opprimente, né i suoni, né la luce, né i protagonisti. Lasciamo alla Parola, alla preghiera, alle melodie, ai raggi di luce, all’incenso, il tempo e lo spazio per arrivare a un’abside e ritornare a un nartece, il tempo e lo spazio per toccare Dio e toccare l’uomo, il tempo e lo spazio per andare e tornare. Tutta la liturgia sta in questo va e vieni, in questo spazio aerato, questo respiro, questo interstizio dove s’intrufolano gli angeli» (p. 115).

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