venerdì 9 luglio 2010

Il monaco è un bambino che canta e gioca

La festa di San Benedetto (11 luglio)

Nei nostri messali antichi il 21 marzo si trova ancora la festa di san Benedetto da Norcia, abate. Era il suo dies natalis, il giorno della sua morte preziosa, la sua nascita al Cielo. Questa data, che segna il primo giorno di primavera, faceva dire a Papa Giovanni XXIII, in un saluto ai benedettini di Montecassino: “Voi appartenete a un ordine primaverile”.
In verità, l’espansione dell’ordine benedettino fu nei primi secoli della Chiesa come un annuncio della primavera. In un’Italia in piena anarchia, verso l’anno 530, san Benedetto s’installa a Montecassino, gli eserciti di Bisanzio fanno razzia a nord della penisola, la Scuola di filosofia di Atene chiude i battenti, Augustolo – l’ultimo imperatore romano – muore assassinato. In quest’epoca continuamente turbata dalle invasioni barbariche, i primi benedettini si riuniscono in comunità e sotto la Regola del loro Padre svolgono l’apprendistato della vita eterna.
Come? Vivendo sotto lo sguardo di Dio, in umiltà e con il canto – non vi è orgoglio ad anticipare il Cielo –, mediante le sante letture, con la pazienza e la carità fraterna. Se i barbari si convertirono è perché i monaci vivevano meglio, con maggiore dignità e dolcezza: essi recavano la prova di quanto annunciavano.
Ricorrendo la data del 21 marzo durante il tempo quaresimale, i figli di san Benedetto ritaglieranno nel tessuto dell’anno liturgico una festa più solenne, nella quale durante otto giorni d’ottava, per mezzo di processioni e alleluia, si darà libero corso all’allegria di bambini che cantano l’opera della grazia nell’anima del loro Padre. Questa l’origine della festa dell’11 luglio. I monaci francesi che avevano tradotto con sé le reliquie di san Benedetto, la cui tomba non era più sicura nella sua patria, ne profitteranno per celebrare in tale giorno la festa della traslazione del santo d’Italia in Francia.
La riforma del calendario liturgico, che aveva soppresso la festa del 21 marzo, conserva quella dell’11 luglio, nella quale si celebra dunque san Benedetto, non più soltanto quale Patriarca dei monaci d’Occidente, ma come Patrono d’Europa. Di per sé, i cambiamenti introdotti nella liturgia non sono una buona cosa. Un giurista faceva notare che è soprattutto la grande antichità delle leggi a renderle sante e venerabili: il popolo disprezza ben presto quelle che vede cambiare tutti i giorni. Ma la festa benedettina dell’11 luglio estesa alla Chiesa universale non può che rallegrare il cuore di un monaco, e si apporterà la più gran cura nel preparare questa solennità, meditando su una delle figure più elevate dei tempi antichi, quella stessa che ha dato il suo stile e il suo accento all’intero cristianesimo occidentale, a tal punto che i Papi hanno voluto porre sotto il suo patrocinio la cultura e lo spirito della civiltà cristiana.
Chi dice civiltà cristiana dice costumi cristiani. Ebbene, i costumi cristiani sono i costumi del Cielo. Poiché san Benedetto è stato un gigante della contemplazione e della santità, i suoi discepoli hanno osato vivere imitando gli abitanti del Cielo; è essenzialmente per questo, e non anzitutto per lo sviluppo delle scienze, che costoro sono stati i padri dell’Europa. Il termine PAX sormontato dalla croce che presiedeva la facciata dei loro edifici significava che la pace del Cielo era discesa sullo spazio terrestre.
Chi era san Benedetto? Ci sembra che la bellezza soprannaturale della sua anima si possa esprimere in alcuni tratti essenziali.
Un’anima del desiderio – Quando il giovane Benedetto, deluso dallo spettacolo delle vanità, lascia Roma – nella cui aria fluttua ancora una tara del paganesimo –, egli è spinto essenzialmente dalla sete di conoscere Dio, di amarlo, di vivere solo per lui. “Soli Deo placere desiderans”, dice di lui il suo biografo san Gregorio: desiderando di piacere solo a Dio. L’idea di consacrazione religiosa che ha dato al mondo cristiano una delle sue istituzioni più belle e più sante, è nata da questa sete, da questa fuga dal mondo di un giovane innamorato d’amore assoluto. Tutti i grandi fondatori d’ordini hanno seguito questa corsa sfrenata verso il Cielo, o verso ciò che sulla Terra vi si avvicina di più: l’unione a Dio lontani dal mondo.
Benedetto, il giovane studente romano appena coinvolto nel cursu honorum – che un gioco di parole potrebbe tradurre con “corsa agli onori” – ha iniziato a fuggire la città degli uomini per vivere solitario nella grotta di Subiaco, come un angelo.
Dopo di lui tutti gli ordini religiosi, che lo Spirito Santo farà nascere per rispondere a una necessità particolare – insegnamento, cura dei malati, riscatto dei prigionieri – avranno per finalità primaria e fondamentale la ricerca della perfezione evangelica, cioè della santità.
Ci sia consentito insistere su questa sete. Si tratta dell’espressione di una chiamata di Dio, poiché è anzitutto il segno fondamentale di tutte le creature: l’uomo creato a immagine di Dio, orientato verso Dio, in uno stato di tensione e desiderio verso il suo fine. Da migliaia di anni, dalle prime manifestazioni dell’arte e del pensiero, si percepisce quest’aspirazione inquieta, quest’ardente singulto che rotola di epoca in epoca, riassunto nella famosa preghiera di sant’Agostino: “Signore […], ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché riposa in te”.
Se fosse rimasto nella sua solitudine, Benedetto da Norcia avrebbe raggiunto l’immensa schiera dei mistici anonimi in cerca del regno invisibile di cui ogni uomo è portatore, e di cui così pochi rendono testimonianza. Ma Dio ha suscitato taluni per essere i capi di un grande esercito, nel quale a migliaia altri uomini verranno ad arruolarsi, per militare sotto l’influenza e l’irradiamento di una grazia iniziale, che è l’avvenimento fondatore.
Il raccoglitore – È appropriato che gli avvenimenti gettino una luce sugli esseri che li hanno provocati, la loro fisionomia essendo stata nel corso delle epoche ricoperta dalle ombre. Come gli artisti dei tempi antichi, il Patriarca dei monaci svanisce dietro la sua opera. Come la luce di una radura in piena foresta parla del sole, il lungo lignaggio dei discepoli di san Benedetto ci parla della sua anima pacifica e unificata. Non è il monaco a essere andato al mondo, ma il mondo che – per permesso di Dio – è andato dal monaco, nel corso di una visione celeste. In tal guisa un giorno fu posto davanti ai suoi occhi tutto intero il mondo, non nelle dimensioni delle grandezze terrestri, bensì umilmente raccolto sotto un unico raggio della luce divina. Allora, ci dice san Gregorio, l’uomo di Dio percepì quanto ogni creatura è ben piccola cosa, “quam angusta essent omnia creatura”.
La pochezza del mondo creato non fu per Benedetto un pretesto per disprezzarlo, o distruggerlo, ma per considerarlo interamente illuminato da una luce soprannaturale, dotato per ciò stesso di un carattere sacro; un mondo la cui stessa pochezza renderebbe facilitata la restaurazione: san Benedetto è il patrono d’Europa perché fu prima di tutto l’educatore che raddrizza e corregge gli elementi informi di una civiltà allo stato infantile. San Benedetto ha radunato le componenti sparse dell’esperienza monastica orientale – i Padri del deserto, Giovanni Cassiano, Pacomio, Basilio – e le ha adattate al carattere organizzatore del genio romano. Ha conciliato l’arte e la religione, la contemplazione e l’azione, il lavoro e la preghiera, lo studio e le opere servili, il nobile e il servo.
Se un barbaro incolto veniva a bussare alla porta del monastero, lo mescolava fraternamente al figlio del patrizio, e insegnava a tutti e due a vivere come i figli di un medesimo Padre. “Siete stati comprati a caro prezzo: glorificate dunque Dio nel vostro corpo!”.
Il duro combattimento contro le passioni, le prodezze ascetiche e le straordinarie penitenze, avrebbero potuto assorbire i discepoli di san Benedetto, come accadde un secolo prima ai monaci di san Colombano; ma vi è nella Regola una dolcezza soprannaturale più adatta a scoraggiare l’uomo dalle follie del mondo: mediante una lunga e tenera distrazione a fianco delle cose di Dio, con il canto dei Salmi, il casto amore dei fratelli, l’innocenza di una terra da coltivare.
Se ci si chiede in qual modo l’ordine benedettino abbia compiuto la sua duplice missione di ripulitura della terra e delle anime, la storia risponderà invariabilmente che ovunque si trova un gusto familiare e terreno che fissava le popolazioni al suolo, una proiezione del Vangelo su quel dato naturale rappresentato dalla famiglia romana. Lo stesso san Benedetto ne dava l’esempio, con un accento posto sulla comunità, la pace interiore, i legami fraterni, lo spirito filiale: ciò che gli storici hanno chiamato una civiltà della bontà.
Come dice Jean de La Varende in Guillaume le conquérant: “Tali ambienti monastici, con le loro aziende agricole, le loro scuole, i loro ospedali, crearono un’immensa poetica umana, un candore, una bonomia, una dilezione, una pace, una felicità contro la quale nulla poteva prevalere. È necessario impregnarsi di tali nozioni per spiegare questa specie di controllo sulla terra realizzato dalle abbazie”.
Attingendo alle fonti del Vangelo sin dall’inizio dell’era cristiana, lo spirito dei primi monaci si è trovato naturalmente estraneo ai conflitti dottrinali che, in seguito, chiederanno agli ordini religiosi un servizio ecclesiale fondato sulla sorveglianza e l’opposizione. La Regola alla quale si sottomettevano non li spingeva a comporre gli elementi di una strategia dottrinale, bensì a riunire gli sforzi degli uomini laddove – in uno spirito di confidenza e aiuto fraterno – tutto concorreva alla lode divina. Così si esprime Henri Pourrat in La véritable histoire de France: “L’ordine divino vuole che tutto salga verso la sua luce. Ma le nature non si elevano se non sono guidate e assistite da nature più elevate: l’intero universo è assistenza e amicizia. Gli esseri umani non saprebbero salire se non seguissero i santi davanti a loro; e i santi se non fossero a ciò chiamati dagli angeli”. In questo spirito di unità e di riunione le comunità monastiche uscite da san Benedetto hanno messo in onore l’ordine della preghiera sociale, l’ospitalità, la risoluzione delle liti, l’architettura e la musica, il gusto della vita armoniosa alla quale si associano tutte le creature.
La semplicità – Il cardinale John Henry Newman, storico dei primi tempi del monachesimo, è rimasto colpito dalla semplicità di vita dei monaci antichi: “Il loro obiettivo era il riposo e la pace; il loro stato, il ritiro; la loro occupazione, qualche semplice lavoro, quasi opposto al lavoro intellettuale, cioè la preghiera, il digiuno, la meditazione, lo studio, la trascrizione, il lavoro manuale e altri impieghi calmi e lenitivi. Tale era la loro pratica nel mondo intero. Erano fuggiti dal mercato affollato, dalle vincite truccate, dal banco dei cambi, dal commercio del bottegaio. Avevano girato le spalle al foro litigioso, all’assemblea politica e al bazar del commercio. Avevano trattato i loro ultimi affari con architetti e sarti, macellai e cuochi. Tutto ciò che volevano, tutto ciò che desideravano, era la dolce presenza pacificatrice della terra, del cielo e del mare, la grotta ospitevole, il candido ruscello che discende, i doni semplici dati dalla terra materna – justissima tellus – quando la si prega appena”.
Condivisa la tenerezza newmaniana per il carattere virgiliano con il quale egli designa il monachesimo, rimane che una delle costanti del monachesimo benedettino è il ritorno a una vita che si è sbarazzata di tutto ciò che costituisce ostacolo alla pura ricerca di Dio, nella pace di una ritrovata innocenza.
Una natura affettuosa – Questa semplicità di vita va di pari passo con una carità dolce e affettuosa, presa dal vivo presso taluni cronisti. Ecco il ritratto dell’abate Easterwine di Wearmouth che ci ha lasciato Simeone di Durham, nel secolo VII: “Sebbene fosse stato al servizio di re Egfrido, una volta abbandonati gli affari del secolo e avere messo da parte le armi, non fu altro che un umile monaco, in tutto uguale a ognuno dei suoi fratelli, lavorando assieme a loro con grande gioia, alla mungitura delle pecore e delle mucche, andando al forno del pane, in giardino, in cucina, in tutti i lavori domestici, gioioso e obbediente. E quando ricevette il titolo d’abate, egli fu ancora in spirito esattamente quel che era stato prima con ciascuno, dolce, affabile e buono.
Se si era compiuta qualche mancanza, certamente la correggeva, in nome della Regola, ma ciò nonostante guadagnava così bene il colpevole con il suo modo immediato, sincero, a tal punto che non si desiderava per nulla di commettere mai più la propria manchevolezza o di oscurare la radiosità di quel volto chiarissimo con la nube di una trasgressione. Spesso, quando si recava qui o là, di corsa per il monastero, e vedeva i suoi fratelli al lavoro, vi si associava all’istante, guidava l’aratro, martellava il ferro, trainava il carro, o faceva altre cose simili. Era giovane e robusto, con una voce dolce, un carattere gioioso, un cuore generoso, un bel volto. Mangiava le stesse pietanze dei suoi fratelli e sotto lo stesso tetto. Dormiva nel dormitorio comune, come prima di essere abate.
Continuò a comportarsi in tal modo durante i primi due giorni della sua malattia, quando la morte l’aveva già avvicinato, come egli sapeva bene. Ma durante gli ultimi cinque giorni, si ritirò in un locale più appartato. Allora, uscendo all’aperto, si sedette, chiamò a sé tutti i monaci, com’era d’abitudine con la sua natura affettuosa, diede il bacio della pace ai monaci in lacrime e spirò durante la notte, mentre cantavano le Lodi”.
Sono trascorsi appena pochi decenni dalla morte di san Benedetto e già si delineano nella vita dei suoi discepoli i tratti essenziali dell’anima del loro Padre.
Lo spirito d’infanzia – Se nell’universo benedettino vi è una parentela con i primi anni dell’esistenza umana, è anzitutto perché il Vangelo c’invita a ciò dall’altezza della sua autorità morale. Inoltre, poiché la vita vi è concepita come quella dei bambini attorno al loro padre, in un’atmosfera di dolcezza nella quale fioriscono volentieri i sentimenti che sono propri alla giovane età: l’innocenza, la pace dell’anima, la confidenza filiale, la gioia di sapersi amati nell’assenza di preoccupazioni per il domani. Aggiungiamo, il gusto per la liturgia.
Dom Filibert, abate fondatore di Tournay, al quale certi visitatori chiedevano, non senza enfasi, una definizione formale della vocazione monastica, rispondeva tutt’a un tratto: “Il monaco è un bambino che canta e gioca”. Non si tratta di una definizione scolastica per il genere e la differenza specifica, ma ciò faceva del monaco un cantore e un liturgo, qualcuno che anzitutto s’interessa a Dio e che anticipa il Regno. Non s’insisterà mai troppo sul potere educatore della liturgia, sull’influenza che essa esercita ben presto sull’anima e sul corpo, per ricordare all’uomo la sua appartenenza sociale, visibile, alla Chiesa di Cristo, per ridargli il senso della sua dignità soprannaturale, il senso dell’adorazione. Infine, la liturgia, elevandosi al di sopra delle categorie dell’utile e del redditizio, proietta l’uomo in un universo di gratuità, che è la nozione la più dimenticata del mondo moderno.
Ritrovare il candore che ha fatto i mondi, raggiungere quel Dio pieno d’inventiva e di gioia che ha “fissato la luna e il sole” (Sal 73,16), che non ha avuto paura d’imprimere il suo marchio su una materia promessa alla cenere, che ha plasmato “il Leviatàn […] per giocare con lui” (Sal 103,26), significa entrare nello spirito d’infanzia, che canta, che ammira, e che ama. Questa felice contemplazione inscritta nei cantici di lode del giorno e della notte reclama una freschezza, un’imprevedibilità, una gioventù dell’anima, di cui non tutti – ahimé! – sono capaci, ma che è il segno di questo spirito del quale lo stesso Dio fece l’elogio. Così, quando il Signore compare nel Vangelo, non prevale un sentimento di paura, ma un canto di ammirazione e di gratitudine. Lo testimoniano i cantici della storia sacra: il Gloria degli angeli sopra la grotta, il Magnificat della Vergine Maria, il Benedictus di Zaccaria, il Nunc dimittis di Simeone. Alla presenza di Dio, la creatura canta. Esulta. Rende gloria a Dio.
Un’ultima immagine si presenta per completare questa successione di pennellate destinate a chiarire la fisionomia di un Padre. San Gregorio ci ha mostrato il grande Patriarca realizzare miracoli, come un tempo i veri amici di Dio. Ma un’immagine si staglia sopra le altre nei Dialoghi, più emozionante e più cara di tutte le altre al cuore dei suoi discepoli. È un’immagine silenziosa. Si tratta di quella veglia notturna di san Benedetto, in piedi, vicino alla finestra, mentre i suoi figli dormivano. Niente è più bello di questa veglia del Padre sui suoi figli, nel silenzio della notte, immagine della paterna bontà di Dio proteso verso le sue creature, funzione di guardiano che san Benedetto prosegue nell’eternità, nel mezzo di una grande luce, al livello più alto di un potere d’intercessione richiesto dallo stato della Chiesa e del mondo, lo sguardo fisso sull’immenso esercito di monaci neri, talora mal guidati, scarsamente illuminati, attorniati da tutte le trappole del mondo, ma partiti con un coraggio infantile alla ricerca della patria celeste.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), La Saint-Benoît d’été (11 juillet), in Itinéraires, n. 335, luglio-agosto 1989, pp. 83-93, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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