mercoledì 27 ottobre 2010

Le Barroux: quaerere Deum

[Nel numero di novembre 2010 del mensile il Timone (anno XII, n. 97, pp. 22-24) è comparso un articolo sul monachesimo benedettino e l'abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux. Ne riproduciamo di seguito la versione originale e integrale, più ampia di quella andata in stampa]

«Ascolta, figlio, gli insegnamenti del tuo maestro, apri docile il tuo cuore, accogli volentieri i consigli del tuo padre». Con queste parole di sapore schiettamente biblico – che evocano immediatamente l’«Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4) – si apriva quindici secoli fa la grande porta di santità della Regola dei Monasteri di san Benedetto (480 ca.-547 ca.); un libro di dimensioni tutto sommato ridotte – composto da un prologo e da 73 densi capitoli – che avrà tuttavia il destino e la gloria di contribuire grandemente a imprimere un carattere radicalmente cristiano al mondo occidentale, allora in una fase di grandi rivolgimenti e di cambiamenti epocali, per certi versi non del tutto dissimili da quelli che proprio oggi ci troviamo a vivere.
Della figura gigantesca di san Benedetto – non a caso proclamato, nel 1964, patrono d’Europa dal servo di Dio Paolo VI (1963-1978) – e della paternità spirituale della sua Regola – dalla quale occorre «ripartire», ebbe a dire il venerabile Giovanni Paolo II (1978-2005), «per la ricostruzione morale e religiosa che urgentemente ci sollecita» –, ci rimane certo il monumento letterario contenuto nel secondo libro dei Dialoghi di san Gregorio Magno (540 ca.-604), unica biografia contemporanea che sia stata realizzata del santo nato a Norcia e morto a Montecassino. Un ruolo, quello del patrono del monachesimo occidentale, ben messo in luce in un celebre panegirico del teologo Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704), nel quale la sua Regola veniva descritta come «un condensato del cristianesimo, un dotto e misterioso sommario di tutta la dottrina del Vangelo, di tutte le istituzioni dei santi Padri, di tutti i consigli di perfezione».
«Sommario di tutta la dottrina del Vangelo», l’intera opera di san Benedetto realizza dunque pienamente il «per ducatum Evangelii» («sotto la guida del Vangelo»), ovvero l’appello che il santo lancia ai suoi discepoli a metà del prologo della sua Regola. Per fare questo, il santo patriarca si accinge – come scrive – a «istituire una scuola del servizio del Signore» («schola dominici servitii», RB prol. 45), per quel genere di monaci «cenobiti, ossia di coloro che vivono in un monastero e obbediscono a una Regola e a un abate» (RB 1,2).
Non è questa la sede per tracciare una storia del monachesimo – storia che avrebbe molto da insegnarci, e che ci offrirebbe l’opportunità di abbeverarci a fonti limpide di santità e spiritualità –, se non per annotare di sfuggita che la «scuola del servizio del Signore» istituita da san Benedetto si pone in diretta e consapevole continuità con un modello esemplare di vita cristiana – il monachesimo – che va dal padre del cenobitismo, san Pacomio (292-348), a san Giovanni Cassiano (360 ca.-435), che dopo un lungo soggiorno nei monasteri della Palestina e dell’Egitto, scrisse per i monaci d’Occidente delle opere pensate come progetto organico capace di trasmettere e di tradurre in un linguaggio accessibile l’esperienza e l’insegnamento dei Padri conosciuti in Oriente. Ma la linea è ancora precedente, se lo stesso Cassiano non esita a scrivere, nelle sue Conferenze ai monaci, che «la vita cenobitica ebbe il suo inizio al tempo della predicazione apostolica» (Conl. 18,5).
«Il monachesimo – scrive il più autorevole studioso vivente della letteratura monastica antica, dom Adalbert de Vogüé – è allo stesso tempo un movimento spirituale del passato e una via aperta nell’oggi all’anima che cerca Dio. Nato in un momento storico preciso, di cui porta l’impronta indelebile, risponde a un bisogno permanente e in qualche modo senza tempo».
Se quelle appena menzionate sono alcune delle coordinate storico-spirituali della figura di san Benedetto e del monachesimo di cui è patrono, trascorsi ormai quasi millecinquecento anni da quei felici esordi, quale attualità e quale richiamo dovrebbero trovare riverbero in noi, provenendo da quel mandato e lascito? Una felicissima risposta è contenuta in quello che, a vario titolo, possiamo considerare uno degli interventi magisteriali cardine del pontificato di Benedetto XVI, ovvero il discorso svolto in occasione dell’incontro con il mondo della cultura, a Parigi – al Collège des Bernardins –, del 12 settembre 2008, quando il Papa ha inteso parlare «delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea». Dopo essersi chiesto se la cultura monastica sia «un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato», il Santo Padre ha ribadito la considerazione condivisa secondo la quale i monasteri sono stati i luoghi in cui venne «formata passo passo una nuova cultura». Benedetto XVI – profondamente legato alla figura di san Benedetto, com’è noto sin dal nome scelto una volta asceso al soglio pontificio – non si è però accontentato di prendere atto del fatto del «monachesimo creatore di civiltà», ma si è domandato più profondamente come ciò avvenne, qual era la motivazione delle persone, che intenzioni avevano, come hanno vissuto. La riflessione che Benedetto XVI ha svolto, a partire da tali quesiti, è del tutto cruciale, e solo apparentemente paradossale: «Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio».
Si potrebbe ritenere che il tempo attuale non consenta un’esperienza come quella sin qui tratteggiata, orientata in modo «escatologico», capace di costruire una realtà solida – e potenzialmente creatrice di civiltà – per mezzo di persone che dietro le cose provvisorie cercano il definitivo, animate da quel «désir de Dieu» («desiderio di Dio») reso celebre da un noto volume dell’erudito benedettino Jean Leclercq (1911-1993), che permette d’incontrare il Signore il quale ha «piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, ha spianato una via, e il compito consiste nel trovarla e seguirla», come prosegue Benedetto XVI nel discorso al Collège des Bernardins.
Il viandante, il pellegrino, l’uomo e la donna, la famiglia, il gruppo giovanile, il religioso, il consacrato, l’inquieto – comunque l’essere umano nelle sue varie declinazioni, alla ricerca di Dio –, può invece incontrare ancora oggi tracce vive e feconde di questa avventura interiore, capace allo stesso tempo di collegare all’antico e nobile lignaggio delle tradizioni di quanti ci hanno preceduto, ma ultimamente e soprattutto al nostro vissuto dell’oggi, nell’orizzonte di Dio.
Se ne può fare l’esperienza molto concreta salendo la collina francese retrostante al villaggio provenzale di Le Barroux – non lontano da Avignone –, immersi in una natura rigogliosa di vigneti, albicocchi e oliveti. Qualche tornante fra gli alberi e una segnaletica via via rassicurante ci permettono infine di scorgere in leggera lontananza il profilo del campanile e della chiesa dell’abbazia benedettina Sainte-Madeleine, cui si arriva agilmente accompagnati dalle edicole votive e oratori che segnano il percorso, segno e anticipazione della devozione dei monaci che ancora non scorgiamo; anche i bambini in auto non mancheranno di riconoscere san Giuseppe con in braccio il piccolo Gesù mentre nasconde i ferri del mestiere dietro la schiena nella premura di non ferirlo, san Benedetto, o nel boschetto che delimita l’area dei posteggi – a modo suo enorme, segno loquace, per chi vi arriva la prima volta, del continuo afflusso di visitatori – la Madonna di Guadalupe, precisamente invocata dai monaci a guida e protezione delle famiglie, primo baluardo di ogni cristianità. Finalmente arrivati, un grande prato fiorito di lavanda ci anticipa il primo piano della grande abbazia, costruita in uno stile romanico che richiama l’austera solidità dei modelli architettonici cistercensi. Tutto ciò che ci circonda è allora un inseguirsi di sguardi, i quali suggeriscono e imprimono subito nell’anima una fortissima suggestione di spiritualità.
Ma non siamo giunti a un monumento storico da visitare in quanto turisti, tant’è vero che il luogo non prevede visite guidate di sorta. Siamo invece oggi, proprio noi, proprio qui, in una «schola dominici servitii», in un monastero abitato da una grande comunità di monaci benedettini, che ha deciso di sfidare il clima di secolarizzazione che attanaglia il mondo moderno, costruendo dal nulla – con la propria fatica e l’aiuto e il sostegno di numerosi fedeli e benefattori – un’abbazia, esattamente come fecero i nostri padri medievali, quale segno tangibile che un altro mondo è possibile.
Dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, le cui origini risalgono al 1970, quando l’esordio della fondazione aveva i suoi natali nel vicino villaggio di Bédoin, si può dire che sia il prolungamento della vita del suo fondatore e primo Padre Abate, il monaco benedettino dom Gérard Calvet (1927-2008), che così scriveva nel 1988, quasi anticipando alcuni degli argomenti espressi da Benedetto XVI nel discorso che abbiamo a più riprese menzionato: «I monaci hanno fatto l’Europa, ma non l’hanno fatta consapevolmente. La loro avventura è anzitutto, se non esclusivamente, un’avventura interiore, il cui unico movente è la sete. La sete d’assoluto. La sete di un altro mondo, di verità e di bellezza, che la liturgia alimenta, al punto da orientare lo sguardo verso le cose eterne; al punto da fare del monaco un uomo teso con tutto il suo essere verso la realtà che non passa. Prima di essere delle accademie di scienza e dei crocevia della civiltà, i monasteri sono delle dita silenziose puntate verso il cielo, il richiamo ostinato, non negoziabile, che esiste un altro mondo, di cui questo non è che l’immagine, che lo annuncia e lo prefigura».
L’irradiamento dell’abbazia Sainte-Madeleine non conosce sosta, si potrebbe dire da quarant’anni in qua. Lo testimonia il consistente numero di monaci – dal 2003 guidati dal successore di dom Gérard, l’attuale Padre Abate dom Louis-Marie Geyer d’Orth –, che nel 2002 hanno dato vita alla fondazione del priorato monastico Sainte-Marie de la Garde, nella diocesi di Agen; così, oltre alla cinquantina di cenobiti residenti a Le Barroux, una dozzina di loro fratelli hanno iniziato nel 2010 l’inizio dei lavori di costruzione di una nuova abbazia, replicando la sfida già intrapresa alcuni decenni prima in Provenza. E parimenti, proprio di fronte alla collina che ospita l’abbazia di Le Barroux, sulle orme di dom Gérard è venuta a installarsi la comunità monastica femminile Notre-Dame de l’Annonciation (nata nel 1979), che nel 1992 è stata eretta anch’essa in abbazia e oggi ospita una trentina di monache, guidate dalla Madre Abbadessa Placide Devillers.
Un irradiamento, quello di Le Barroux, che poggia sulle «tre colonne» concepite da dom Gérard come fondamento dell’avventura monastica da lui avviata nel lontano 1970, ovvero: una formazione intellettuale alla scuola della filosofia dell’essere d’impronta aristotelico-tomista; un’adesione senza riserve alla Regola di san Benedetto, intesa come elemento fondante stabile della nascente comunità, per la sua ricchezza, la sua universalità e la sua inesauribile capacità di adattamento; e la fedeltà alla preghiera liturgica nella forma straordinaria del Rito romano.
Quest’ultimo aspetto, in particolare – ossia il vincolo e la strenua difesa della Messa secondo il «rito antico», che da quarant’anni incanta le anime di quanti visitano questo monastero e alimenta la loro vita interiore –, ha permesso all’abbazia di Le Barroux di assumere un ruolo di rilievo nella riscoperta e diffusione della «liturgia gregoriana», come testimoniano i molti sacerdoti e membri di comunità di vita consacrata che si recano a Le Barroux per apprendere la corretta celebrazione di questa forma liturgica, con la quale il 24 settembre 1995 lo stesso cardinale Joseph Ratzinger celebrò nella chiesa abbaziale del monastero, presso il quale si era recato in visita.
In quest’ottica, il fedele che scruta la lunga teoria di monaci fare ingresso nella chiesa abbaziale di Le Barroux al seguito del Padre Abate – che giustamente richiama alla mente la «fortissima stirpe» descritta da san Benedetto nella Regola (1,13) –, sia che vi entrino per l’Ufficio divino cantato in gregoriano, sia che si accingano a celebrare i divini misteri, percepisce bene e in maniera indelebile la definizione data dal celebre abate di Solesmes, dom Prosper Guéranger (1805-1875), secondo il quale «la liturgia è la Tradizione stessa nel suo più alto grado di potenza e di solennità». E così facendo, intuisce la verità di quanto affermato da Benedetto XVI nel discorso già citato, ovvero che «ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura».

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