venerdì 17 dicembre 2010

Chiesa celeste: la nostra vera patria

L’instabilità dell’uomo moderno deriva in gran parte dal fatto che ha perso il senso della vita comune; l’individuo destabilizzato, perché concentrato su sé stesso, ha bisogno, per restare davvero sé stesso, di appartenere a una comunità visibile, o invisibile. Non faremo un processo alla società civile, nella quale il collettivismo anticomunitario individualizza gli esseri abbandonandoli ai flutti incolori di una massa senza struttura; ma come non riconoscere, purtroppo, lo stesso fenomeno nell’ordine ecclesiale? Ora la Chiesa, Sposa e Corpo mistico di Cristo, è la società più diversificata, strutturata, gerarchizzata che esista: dal vertice fino alla base, tutto porta l’impronta di una gerarchia sacra che emana dal suo centro vivificante. Questa Chiesa celeste composta da angeli ed eletti, che i nostri pittori primitivi hanno rappresentato con occhi spalancati, mani giunte e disposti in ranghi attorno all’Agnello, dai più importanti Serafini fino alle anime del Purgatorio che salgono per prendere posto tra i numerosi cori, è la nostra vera patria ed è riconoscendola che ne avvertiamo l’eternità.
Quale manuale, quale spiegazione didattica ci aprirà la mente al Mysterium Ecclesiae? Nessuno, se non la parabola vivente della cerimonia liturgica che si svolge davanti ai nostri occhi.
All’epoca del pontificato di Pio XII, il Padre abate di Bec-Hellouin, in Normandia, riferiva che all’uscita di una Messa solenne alla quale assistevano alcuni pastori protestanti, uno di loro, emozionato, esclamò: «Ho visto la Chiesa!». La ragione misteriosa di questo grido estatico non dev'essere ricercata lontano dalla nostra celebrazione dell’Ufficio, fiume carico di religione e di luce, di canti, profumi, formule e riti solenni, che discende dall’altare attraverso l’ufficio del diacono, per coinvolgere la comunità dei fedeli che assistono nella navata, veri attori del dramma liturgico, dove il clamore si sposa al silenzio dell’anima.
Non è raro che il meraviglioso concatenarsi di salmi e profezie, che compone la preghiera pubblica, conduca un’anima in ricerca fino al santuario, dove questa voce melodiosa gli svela il mistero della Sposa. Padre Humbert Clérissac raccontava come un rabbino, nel secolo XII, si fosse convertito alla fede cattolica; l’uomo avendo osservato che il lirismo della sinagoga era passato nella liturgia della Chiesa, non ebbe difficoltà a identificare la fonte autentica della rivelazione. Dom Ildefons Herwegen, già abate di Maria Laach, ne ha esposto la ragione: «È nella liturgia, specialmente nel messale e nel breviario che la Scrittura acquisisce la pienezza della sua luce e della sua vera eloquenza; in effetti la liturgia è l’espressione sintetica e lirica delle due forme più soprannaturali: la sacra Scrittura e la santa Chiesa».
In Virgilio c’è un brano profetico che chiarisce le profondità della storia. Enea, visitato da una misteriosa consolatrice, non la riconosce se non al momento del suo partire, in maniera furtiva: «Et vera incessu patuit dea» («Vera dea s’aprì al portamento» [Eneide I,405]). Ciò che la Chiesa porta in sé di soprannaturale, non si coglie forse solo attraverso uno stile di preghiera misterioso, soave, celeste, aereo, attraverso il quale si manifesta proprio mentre si sottrae?

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Le sens de l’Église, in Benedictus. Ecrits Spirituels. Tome I, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 244-246, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

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