lunedì 19 dicembre 2011

L'ufficio divino con i monaci di Le Barroux

«Non vi è che un problema, uno solo nel mondo: dare agli uomini un significato spirituale. […] Fare piovere su di essi qualcosa che assomigli a un canto gregoriano» (Antoine de Saint-Exupéry [1900-1944], “Lettre au général X”, in Un sens à la vie, Gallimard, Parigi 1956, p. 225).

I monaci dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux hanno lanciato nella settimana che prepara al santo Natale un “regalo” che desiderano condividere. Attraverso l’apposito link interno al sito Internet dell’abbazia, è ora possibile seguire in diretta gli uffici liturgici del monastero, cantati integralmente in gregoriano nella forma extraordinaria del Rito romano (Breviario monastico del 1963). Sette volte al giorno, sia attraverso l’applicazione Barroux del proprio iPhone o iPad, o ancora sul proprio computer, sarà possibile unirsi ai monaci di Le Barroux nella grande preghiera liturgica della Chiesa. Gli uffici trasmessi in diretta sono i seguenti:

• Lodi : ore 6:00
• Prima : ore 7:45
• Terza : ore 9:30
• Sesta : ore 12:15

• Nona : ore 14:15
• Vespri : ore 17:30
• Compieta : ore 19:45

Quanti desiderassero potere disporre dei libri liturgici per seguire l’ufficio divino, li possono acquistare nella versione “diurnale monastico” o in singoli libretti per le varie Ore liturgiche del giorno attraverso il negozio online dell’abbazia.

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sabato 26 novembre 2011

Tempus Adventus

Ad matutinum mutanda est pars breviarii

Ad Horas et Compl. tonus hymni de Adv. præterquam in festis.
In Ms. præf. de Adv. etiam in festis, nisi propria assignetur.
Ad Compl. ps. in direc­ tum (et sic per totum Adv. præterquam in Conc. Imm. B.M.V.) A Alma.




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martedì 22 novembre 2011

L'oblato e lo spirito di san Benedetto

Ci rallegriamo di vedere la nostra famiglia accogliere regolarmente dei nuovi membri, con una simpatica proporzione di giovani famiglie. Non è forse soprattutto per loro che il soccorso dell’oblatura si rivela profittevole? Come non salutare di passaggio questi spazi vergini, queste speranze intatte che non hanno ancora incontrato le delusioni della vita, affrontato un mondo coalizzato contro il loro progetto, contro il loro ideale, contro i loro princìpi cristiani? Poiché alcuni di voi mi hanno chiesto di definire lo statuto proprio degli oblati di san Benedetto, profitto di questa lettera per rispondere a tale desiderio, felice di potere forse dare qualche rassicurazione ai meno attrezzati fra di voi, a quanti e quante lottano nel combattimento spirituale, più rude – al dire del poeta – delle battaglie umane.
L’oblatura benedettina non è assimilabile né a una confraternita né a un raggruppamento per l’apostolato; non è nemmeno un ordine di terziari, concepito dal fondatore, con degli statuti precisi e delle obbligazioni giuridiche. L’oblatura è anzitutto uno spirito. Lo spirito di san Benedetto. Uno spirito così semplice, così potentemente radicato nelle prime epoche del cristianesimo, che può facilmente espandersi dal tronco fino ai rami più lontani.
L’oblato, attirato dalla perfezione della vita cristiana – la medesima che esige la grazia del suo battesimo – si collega a una famiglia monastica e al suo abate mediante un legame morale e spirituale analogo all’antico vincolo feudale che univa un tempo il signore e il suo homme lige; impegno assai forte, fondato sulla parola, in un’epoca in cui la parola era un valore certo. Tempo felice in cui la parola data oltrepassava in forza gli atti notarili!
Questo impegno a vivere secondo lo spirito della Regola comporta un’esigenza al contempo assai elevata e flessibile, consentendo una grande ricchezza d’adattamento secondo gli stati di vita; ma comporta ugualmente dei diritti e dei doveri. Il dovere consiste essenzialmente per l’oblato a mostrarsi degno della confidenza che gli è stata offerta, mediante una preoccupazione costante d’ispirarsi alla tradizione benedettina nella propria vita personale, e attraverso una dipendenza affettuosa e leale nei confronti della propria famiglia monastica e del suo abate, non secondo la forza del voto, ma secondo l’influenza dello spirito. Egli gode, in contropartita, di un diritto netto: beneficiare delle preghiere del monastero, essere aiutato, consigliato e sostenuto dalla comunità, secondo lo spirito di carità dolce e delicata che regola i rapporti fra i membri di una medesima famiglia.
Lo spirito benedettino dovendo un poco alla volta trasformare la vita dell’oblato, cosa c’è di più necessario di lasciarsene penetrare, e perciò di conoscerne a fondo la natura e le esigenze? È ciò che proveremo a fare in questa circostanza.
Non vorrei, cari fratelli e amici, che voi consideriate queste righe, amichevoli e familiari, come un programma esaustivo. Preferirei procedere a piccoli passi, nel corso di queste lettere periodiche che riceverete ogni trimestre.
Oggi mi limiterò a parlarvi dello spirito benedettino, andando direttamente a ciò che costituisce l’anima della vita monastica, a quel centro ardente da cui procede tutto il resto: il gusto di Dio.
Per andare dritti all’essenziale, diciamo che lo spirito benedettino inclina il monaco a cercare Dio in maniera ostinata e concreta, a organizzare tutta la propria esistenza secondo la volontà di Dio, sotto lo sguardo di Dio, al servizio di Dio. Il benedettino è un animale religioso che costruisce la sua casa – fosse pure modesta – come un tempio di lode e ammirazione, in cui il chiostro e il refettorio fanno parte del santuario, dove tutti gli atti hanno un valore liturgico; un tempio nel quale l’architettura parla di Dio, conduce a Dio, esprime la regalità di Dio sul mondo, sulle anime e sui corpi, intrapresa totalizzante che si protrae fino a fare della vita monastica un’anticipazione dell’eternità. In un universo ricostruito secondo il piano originario di Dio sulla sua creazione, in un universo in cui tutte le occupazioni sono dunque totalmente riferite al Signore, si comprende come non sia necessario attardarsi sull’analisi delle virtù morali e sugli stati psicologici. San Benedetto regola la vita del monaco in maniera tale che Dio ne sia il fondamento e la chiave di volta. L’intero edificio è stato fissato a questo punto di sostegno: tale è la forza della sua architettura; ma tutto crolla seppure un poco s’indebolisce l’idea di Dio. È la sola spiegazione dei periodi di decadenza monastica nel corso delle epoche. Umiltà, obbedienza, castità, preghiera personale, vita liturgica, e tutte le grandi osservanze che compongono la fisionomia del monaco, si spiegano a partire da questo presupposto iniziale, ovvero il senso di Dio. L’umiltà è misurata dalla fede nella grandezza di Dio; l’obbedienza è misurata dalla santità della volontà divina, e così via. Ciò che costituisce la forza dei monaci, la santità e l’irradiamento dell’istituzione monastica, non sono i risultati sociali, culturali o artistici, i quali non sono che conseguenze. Il gusto di Dio, la passione di essere solo suoi, il desiderio e la sete d’incontrare il suo volto: ecco lo spirito benedettino. Tutto il resto è letteratura. Come conservare e coltivare quest’orientamento a Dio, questo desiderio, questo gusto fondamentale? Con la preghiera. Ne riparleremo.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Lettre aux oblats, n. 1, 1985, in Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2011, pp. 16-19, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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giovedì 10 novembre 2011

Sr. M. Serafina Viola O.S.B. - Requiescat in pace


Urbs Jerusalem beata, dicta pacis visio

La Madre Abbadessa con la comunità monastica di San Benedetto in Bergamo
annunciano la morte in Cristo della cara consorella

Sr. M. Serafina Viola O.S.B.

avvenuta mercoledì 9 novembre,
ai Vespri della Dedicazione della Basilica Lateranense.
Nella speranza che i suoi occhi possano contemplare la pace
della Gerusalemme del Cielo,
chiediamo fraterne preghiere di suffragio.

La Liturgia pasquale avrà luogo sabato 12 novembre alle ore 10
nella chiesa del Monastero.

Monastero S. Benedetto - Via S. Alessandro 51 - Bergamo

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venerdì 4 novembre 2011

Dom Gérard - Lettere agli oblati

Negli anni trascorsi abbiamo presentato la pubblicazione dei primi due volumi degli scritti spirituali di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux: Benedictus. Écrits Spirituels. Tome I, del 2009 (424 pp., euro 20), e Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, del 2010 (592 pp., euro 25).
Ora le Éditions Sainte-Madeleine, la casa editrice dell'abbazia provenzale – particolarmente cara ai fedeli legati alla forma extraordinaria del Rito romano, e che costituisce un centro spirituale assai significativo per lo sforzo di fedeltà alla Regola di san Benedetto e per l’irradiamento della liturgia gregoriana, così perpetuando la grande tradizione del monachesimo occidentale in pieno secolo XXI – hanno pubblicato il terzo volume degli scritti spirituali di Dom Gérard: Benedictus. Tome III. Lettres aux oblats (170 pp., euro 12). Riproduciamo di seguito la presentazione editoriale del libro:
«Autentico monaco, Dom Gérard era veramente per gli oblati – come per i monaci del suo monastero – al contempo maestro e padre. Le sue Lettere agli oblati, luminose e ardenti, emanano un tesoro di dottrina spirituale per tutti i cristiani che vivono, agiscono, pregano e vogliono santificarsi nel mondo.
“L’oblatura è anzitutto uno spirito. Lo spirito di san Benedetto. Lo spirito benedettino inclina il monaco a cercare Dio in maniera ostinata e concreta, a organizzare tutta la propria esistenza secondo la volontà di Dio, sotto lo sguardo di Dio, al servizio di Dio”.
Questi pensieri rivelano l’anima infuocata di Dom Gérard, innamorato dell’assoluto di Dio che lo aveva rapito e sedotto. Il suo grande desiderio era di comunicarlo ad altri. Egli perciò indirizzava regolarmente agli oblati dell’abbazia Sainte-Madeleine delle lettere spirituali in cui ritornavano spesso i temi della sete, del desiderio, dell’attesa, dello zelo per la ricerca di Dio e il progresso della vita spirituale.
Autentico maestro, Dom Gérard inculcava in queste lettere lo spirito della santa Regola, sforzandosi di condurre le anime a una vita cristiana più profonda e più fervente. Autentico padre, egli cercava di comunicare la gioia spirituale che brillava nel suo sguardo e desiderava farne conoscere la fonte.
Possano queste pagine di luce e di fuoco trovare numerosi lettori e incendiare i loro cuori, facendogli anzitutto prendere coscienza della ricchezza delle radici cristiane dell’Europa».
Il volume è acquistabile online, nella sezione “boutique”, tramite il sito Internet dell’abbazia.

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giovedì 3 novembre 2011

Quaerere Deum - Benedettini a Norcia


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martedì 25 ottobre 2011

Intervista a Dom Louis-Marie, abate di Le Barroux (seconda parte)

[Grazie alla cortese autorizzazione di Christophe Geffroy, direttore del mensile La Nef e autore dell’articolo, riproduciamo in trad. it. a nostra cura l’intervista al Padre Abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., Un monastère pour le XXIe siècle, comparsa in La Nef, n. 230, ottobre 2011, pp. 18-21 (qui pp. 20-21) / 2 - fine (la prima parte qui)]

Costruire un monastero mentre non si parla d’altro che di costruzione di moschee, non è forse un segno di “resistenza”, il simbolo che il cristianesimo non è morto nel nostro Paese?
È vero che ogni monastero ha la vocazione di essere una cittadella spirituale. La resistenza monastica a quello che lo stesso Padre de Chergé [Dom Christian de Chergé O.C.S.O. (1937-1996), priore del monastero trappista algerino Notre-Dame de l’Atlas di Thibirine] chiamava “l’invasione dell’islam”, non può essere che pacifica e indiretta. Se l’islam assume una tale importanza nell’Occidente cristiano, è perché quest’ultimo ha apostatato dalla sua fede e ha amputato le sue radici cristiane. La mentalità razionalista e anti-cristiana della cultura e delle politiche occidentali li rende assolutamente sprovveduti di fronte a questa grande “onda verde”. Il sindaco di una grande città francese – ancora situata in territorio concordatario – ha bene riassunto quest’attitudine incoerente, dichiarando d’imporre nelle mense, come segno d'apertura, delle pietanze halal [“lecito”, cibo preparato in modo accettabile per la legge islamica], e di rifiutare il pesce di venerdì, per laicità. Ma il problema rimane politico e ci oltrepassa. Torneremo forse a studiare i fondamenti anti-cristiani dell’islam e tutti i pericoli che esso rappresenta per la libertà, al fine di chiarire gli uomini di buona volontà. È nostra responsabilità, più sicuramente, proclamare con forza e dolcezza la nostra fede cristiana e pregare, alimentare il grande fiume soprannaturale che percorre invisibilmente le pieghe della storia per offrire un avvenire di luce.

A proposito di “crisi” delle vocazioni, essa non è dovuta, molto semplicemente, alla diminuzione del numero di cattolici praticanti? La “soluzione” non è dunque nella nuova evangelizzazione, in particolare della famiglia?
Credo che per la nuova evangelizzazione sia opportuno seguire l’esempio del Santo Padre alla GMG. Egli si è anzitutto rivolto ai giovani religiosi, poi ai seminaristi, ancora agli universitari e infine ai giovani del mondo intero. Ogni rinnovamento della Chiesa inizia con la riforma del clero e dei religiosi. Il Santo Padre ha esortato i giovani religiosi alla radicalità nella fede, radicalità nell’adesione a Cristo, alla Chiesa e alla loro missione. È valido per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi. Se si vogliono toccare le famiglie, occorre rinnovare il clero e i religiosi, ridare loro il senso della radicalità. D’altro canto, è pur vero che la ricostruzione della famiglia, se possibile numerosa, è essa stessa una priorità, sia per la società sia per il fiorire naturale delle vocazioni.

Un’abbazia come la vostra, la quale ha conservato le proprie esigenze, non illustra forse che tutte le “soluzioni” alla “crisi” che vanno nella direzione del mondo – matrimonio dei preti, ordinazione delle donne, legittimazione dell’omosessualità per il clero, ecc. – sono votate allo scacco, come dimostrano gli esempi anglicani e protestanti?
Davanti a una Chiesa ammalata, è grande la tentazione di disperare e di rassegnarsi alle cure palliative, quasi per aiutarla a morire senza sofferenze. Tutte le soluzioni mondane e alla moda sono paragonabili alla bevanda che i soldati hanno proposto a Gesù sulla croce affinché soffrisse meno. Ma Gesù l’ha rifiutata. Non vi è ricetta, ma abbiamo la vera medicina: la fede soprannaturale in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, salvatore degli uomini, che ci ha aperto le porte del Cielo. La vitalità della Chiesa non è il prodotto d’industrie umane ma il frutto della grazia, ricevuta principalmente nei sacramenti, e la fedeltà alla Parola di Dio che ci è pervenuta attraverso il Magistero e la Tradizione.

Voi siete legati alla forma extraordinaria del Rito romano: perché questa scelta e come giudicate la situazione liturgica nella Chiesa latina, particolarmente dopo il motu proprio Summorum Pontificum e la recente pubblicazione dell’istruzione Universae Ecclesiae?
La scelta della forma extraordinaria del Rito romano risale alle nostre origini, a Bédoin, nel 1970. Questa scelta non è affettiva, ma è una preferenza motivata da ragioni di manifestazione più netta di talune verità della fede: carattere centrale, sacrificale e sacro, della messa, presenza reale del Signore nelle sante speci, distinzione essenziale del sacerdozio ministeriale del prete e del sacerdozio battesimale. Aggiungo che la forma extraordinaria manifesta altamente la continuità della Chiesa, perché la Chiesa non accetta né rotture né rivoluzioni, essa non muta il contenuto della propria fede. Per finire, l’orientamento ecumenico dato dal Concilio Vaticano II trova nella forma extraordinaria un ponte con le Chiese orientali e finanche con le comunità cristiane anglicane e luterane, dalle forme liturgiche ancora antiche. La situazione liturgica tende a evolvere nel buon senso. Lo vedo per esempio alla messa crismale del Giovedì santo alla chiesa metropolitana di Avignone. Ma occorre del tempo, perché come diceva Dom Gérard, basta una notte per bruciare una foresta, e cinquant’anni per farla ricrescere. In ogni caso, il Santo Padre ha sbloccato una situazione. La forma extraordinaria non è più considerata dai fedeli come abolita. Mi sembra che il fine attuale del Vaticano sia di diffondere la celebrazione di questa forma con tutto ciò che gli va appresso – catechismo, patronati, pellegrinaggi, ecc. – al fine, in un primo tempo, d’influenzare la celebrazione corretta della forma ordinaria. Siamo all’inizio dell’inizio. Dopo di che, Dio provvederà.

Le Barroux si è reso noto per la pubblicazione di studi importanti in accordo con la preoccupazione del Santo Padre di una corretta “ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità”. Per voi questo è importante, e come percepite i progetti di Benedetto XVI in materia?
Si tratta di un punto fondamentale. La Chiesa non ha il potere di darsi nuove costituzioni nel corso del tempo. Essa deve rimanere sé stessa, com’è stata fondata dal suo Maestro. Spetta ai pastori coltivare nella vigna del Signore lo spirito di fedeltà, di comunione con la Tradizione e i suoi sviluppi fondamentali, e quindi di presentare il Concilio Vaticano II non come una novità assoluta, ma come uno sviluppo organico o una riforma nella continuità. I pastori che si comportano diversamente dovranno renderne conto al Signore. Io non sono nei segreti del Santo Padre, ma constato che le sue allocuzioni illustrano bene l’urgenza di riprendere la nostra storia: da cinque anni, egli dedica le sue udienze generali a presentare i giganti della storia della Chiesa, partendo dagli apostoli, passando per san Benedetto, e per finire con santa Teresa del Bambino Gesù. Giunti a questo punto, ci parla dell’uomo di preghiera. Mi sembra che il suo progetto sia il radicamento, tema della GMG, radicamento nella nostra fede, nella nostra storia e nella preghiera. Era anche il progetto di Dom Gérard quando lanciò i lavori di Le Barroux: “Il sommo criterio, quello al quale desideriamo sacrificare tutto, non sarà l’emergenza, ma il radicamento”. Promette buoni frutti.

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lunedì 24 ottobre 2011

Dom Adalbert de Vogüé O.S.B. (1924-2011)

Ci uniamo con sincero dolore e in spirito di preghiera alla comunità monastica dell’abbazia Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire, nell’annunciare la morte del loro illustre confratello Dom Adalbert de Vogüé O.S.B. (1924-2011).
Nato a Parigi il 2 dicembre 1924 in una famiglia dell’antica nobiltà francese, il giovane Adalbert entra nella vita monastica nel 1944, alla Pierre-qui-Vire. Ottenuto il dottorato in teologia nel 1959, si dedica all’insegnamento sui Padri della Chiesa e il monachesimo antico al Pontificio Ateneo S. Anselmo in Urbe e presso il suo monastero.
Dal 1974 conduce vita eremitica in prossimità della sua abbazia e si dedica a una somma sulla storia della vita monastica dalle origini, pubblicata dalle Éditions du Cerf, una vasta impresa d’erudizione senza equivalenti: solo la parte relativa agli inizi del monachesimo latino consta di dodici volumi.
Parimenti, Dom de Vogüé si distingue per uno studio approfondito della Regola di san Benedetto, le cui ricerche, tradotte in molte lingue, diventano un punto di riferimento imprescindibile e sin qui insuperato. Fra tali studi, in traduzione italiana, si veda il fondamentale La Regola di san Benedetto. Commento dottrinale e spirituale, comparso nella collana “Scritti monastici” dalle Edizioni Abbazia di Praglia nel 1984 e ristampato nel 1998; nella medesima collana, si veda pure del medesimo autore La comunità. Ordinamento e spiritualità, edito nel 1991. Ci piace qui inoltre ricordare la preziosa pubblicazione di due volumi di facile lettura e altrettanto solido impianto, pubblicati nella collana “Orizzonti monastici” dell’Abbazia San Benedetto di Seregno: Il monachesimo prima di san Benedetto (1998) e San Benedetto. L’uomo e l’opera (2001).
Negli ultimi anni della sua vita, Dom Adalbert de Vogüé aveva spesso sottolineato la particolare importanza che egli attribuiva a un suo libro “non specialistico”, dedicato alla pratica del digiuno nella vita monastica e cristiana, che ci piacerebbe vedere presto tradotto in Italia, magari a cura di qualche comunità monastica sensibile a un ricentramento di questa fondamentale norma ascetica, così importante sia per i consacrati sia per i laici: Aimer le jeûne. L’experience monastique, Cerf, Parigi 1988. Come pure, ci sia permesso ricordare un altro suo scritto non specialistico ma dal quale traspira come l’esperienza intellettuale del monaco non fosse disgiunta da una sua continua ruminazione sul fine ultimo della vita cristiana: Desiderio desideravi, trad. it., Monastero Santa Scolastica, Civitella San Paolo 1997.
I funerali di Dom Adalbert de Vogüé O.S.B. si svolgeranno mercoledì 26 ottobre, alle ore 11, presso l’abbazia Sainte-Marie de la Pierre-qui-Vire, dove egli ha vissuto per 67 anni.
Requiem aeternam dona ei, Domine, et lux perpetua luceat ei. Requiescat in pace. Amen.

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mercoledì 19 ottobre 2011

Intervista a Dom Louis-Marie, abate di Le Barroux (prima parte)

[Grazie alla cortese autorizzazione di Christophe Geffroy, direttore del mensile La Nef e autore dell’articolo, riproduciamo in trad. it. a nostra cura l’intervista al Padre Abate dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., Un monastère pour le XXIe siècle, comparsa in La Nef, n. 230, ottobre 2011, pp. 18-21 (qui pp. 18-19) / 1 - continua]


Dom Louis-Marie Geyer d'Orth O.S.B.,
Padre Abate di Le Barroux
Un monastero per il secolo XXI

In un tempo di crisi delle vocazioni, l’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux fonda un nuovo monastero. Il Padre Abate ci parla della costruzione di Notre-Dame de la Garde e dell’attualità della vita benedettina tradizionale

Non è paradossale costruire un nuovo monastero, mentre così tante antiche abbazie sembrano vuote o abbandonate?
L’ideale per noi sarebbe stato di trovare un’abbazia già esistente. Per questa ragione, prima d’intraprendere i lavori, ho scritto a un vescovo per chiedergli se potevamo subentrare in un’abbazia che stava per essere completamente restaurata. Ma ciò non è stato possibile né auspicabile per la diocesi. Non si deve dimenticare che per fondare in una diocesi occorre assolutamente l’autorizzazione del vescovo. Una tale accoglienza, dopo una lunga ricerca e molteplici inconvenienti, l’abbiamo trovata presso da diocesi di Agen. Monsignor Jean-Charles Descubes credeva alla forza della preghiera dei contemplativi, anche se non adottava tutto ciò che costituisce il nostro proprio carisma. Quanto a riutilizzare un edificio storico, devo ricordare ai nostri generosi donatori che la restaurazione è assai più costosa di una costruzione.

Potete spiegarci il cantiere nel quale vi siete impegnati? Cosa intendete costruire, e di quali aiuti beneficiate?
La comunità della fondazione aveva assolutamente bisogno di pianificazione e, per non svolgere i lavori in maniera frammentaria, abbiamo scelto un architetto che ha impostato un piano d’insieme. Abbiamo iniziato con il costruire i laboratori definitivi, al fine di potere restaurare gli spazi comuni e il granaio che fino allo scorso giugno erano ancora utilizzati come laboratori provvisori. Ora ci lanciamo in un grande cantiere, il futuro ostello, distribuito su due edifici che saranno collegati da un “ponte”, e il cui tetto dev’essere interamente rifatto; tale ostello sarà composto da un piccolo refettorio, otto stanze, i bagni, una grande scalinata e un parlatorio. Per questa tappa abbiamo bisogno di 600.000 euro. Quanto all’aiuto di cui abbiamo sin qui beneficiato, esso proviene da una parte da qualche raro grande benefattore, e inoltre da una folla di donatori più modesti, ciascuno dei quali – mediante l’“obolo della vedova” così lodato da Gesù – ha aggiunto il suo piccolo ruscello per formare un fiume più abbondante: tutti partecipano secondo la loro misura, ed è questo che conta per Dio.

Per molti Le Barroux fa rima con Dom Gérard, il fondatore: come si manifesta al giorno d’oggi la sua presenza, e cosa ricordate di questa forte personalità?
Dom Gérard ci ha generati alla vita monastica. Gli dobbiamo la nostra tradizione, la nostra formazione, la nostra professione religiosa, alla quale ci ha accolti. Quando sono venuto al monastero, vent’anni fa, gli dissi che cercavo a Le Barroux lo spirito tradizionale e la fedeltà a Roma, ed egli mi rispose che vi era tutto questo. Vi sono poi le tre colonne: anzitutto la dottrina tradizionale, insegnata per mezzo della filosofia tomista; poi le osservanze monastiche, radicate nella pietà filiale verso i nostri fondatori, san Benedetto, Padre Jean-Baptiste Muard – fondatore della Pierre-qui-Vire –, Dom Romain Banquet e Madre Marie Cronier, creatori delle abbazie sorelle di En-Calcat e Dourgne; infine la liturgia celebrata nella forma straordinaria del Rito romano. Dom Gérard ci ha insegnato a custodire gelosamente il tesoro degli antichi, ma per viverne e non per conservarlo come in una camera stagna. Un nostro fratello ha detto che Dom Gérard si svegliava tutte le mattine nuovo come un bambino, ciò che gli ha permesso di passare attraverso molte prove. Questo potere di ringiovanire tutti i giorni, egli lo traeva dalla sua vita interiore, dalla sua grande fiducia nella Vergine Maria e dal suo solido legame con Nostro Signore Gesù Cristo. È sul basamento della sua vita interiore che si poggiava la sua battaglia per la cristianità.

La vostra abbazia recluta, al punto che siete stati obbligati ad aprire una fondazione, nel 2002; anche in questo caso siete controcorrente, perché ovunque si parla della “crisi” delle vocazioni: avete una “ricetta”?
No, nessuna ricetta. La ricetta è Dio, dunque non è una ricetta che si può fare uscire dal cassetto. La sola cosa che conta per noi è di essere fedeli alla nostra vocazione, di credervi, di amarla, di vivere nella pietà filiale. Questo detto, i giovani, è evidente, cercano la radicalità che il Santo Padre ha richiamato in occasione della GMG nel suo discorso ai religiosi. Hanno bisogno di strutture chiare e nette, e non di una ricerca indefinita d’identità in perpetua mutazione. Vogliono degli autentici maestri di preghiera e di vita. E poi noi abbiamo il carisma di Dom Gérard, che ha attratto molti giovani; e ancora – capite bene – i giovani attirano i giovani.

La vostra abbazia vive lo spirito della Congregazione Sublacense, in Francia rappresentata da Padre Muard, meno nota di quella di Solesmes, fondata da Dom Guéranger. Cosa vi distingue dalle altre obbedienze benedettine?
La mia risposta necessiterebbe alcune sfumature, ma grosso modo: Solesmes è stata fondata nel 1833 da Dom Guéranger, uomo di Dio, d’origine canonicale, coltivato negli studi, appassionato di liturgia. Credo si possa dire che la sua restaurazione benedettina avesse per fine il rinnovamento liturgico. La Pierre-qui-Vire è stata fondata nel 1850 da Padre Muard, un altro uomo di Dio, ma curato di parrocchia, poi missionario diocesano, d’orientamento più direttamente apostolico. Egli fondò il suo monastero affinché la testimonianza di una vita povera, umile e mortificata potesse dare qualche frutto di conversione mediante le missioni. Anche l’osservanza era più ascetica, poiché Padre Muard aveva svolto il suo noviziato all’abbazia trappista di Aiguebelle, la cui austerità peraltro inviava molti giovani monaci in Cielo. Sia come sia, En-Calcat, fondata nel 1890 dalla Pierre-qui-Vire, fu molto vicina a Solesmes, e i due rispettivi Abati, Dom Banquet e Dom Delatte, pensarono a un dato momento di unificarsi. Madre Cronier, fondatrice dell’abbazia Sainte-Scholastique di Dourgne, aveva svolto il proprio noviziato a Sainte-Cécile di Solesmes, e intratteneva una profonda amicizia spirituale con la Madre Abbadessa di Kergonan, figlia di Solesmes. Al giorno d’oggi le diverse branche si sono diversificate al punto che, quanto alla liturgia, all’orientamento dottrinale – particolarmente filosofico –, noi siamo ormai più vicini a Fontgombault e alle sue abbazie figlie – facenti parte della Congregazione di Solesmes – che non alla Pierre-qui-Vire.

I monasteri hanno svolto un ruolo essenziale nell’evangelizzazione dell’Europa. Nella nostra epoca di forte scristianizzazione, voi monaci non siete chiamati a svolgere un nuovo ruolo “civilizzatore”? Una tale missione è compatibile con la vita nel chiostro?
Se san Benedetto è diventato il patrono d’Europa con la croce, il libro e l’aratro – come ha detto Papa Paolo VI –, egli non l’ha fatto appositamente; occorre rileggere la conferenza di Benedetto XVI al Collège des Bernardins, nel quale spiega molto bene come i monaci abbiano influenzato la civiltà cristiana; costoro non avevano che un unico e nobilissimo fine: cercare Dio. E non a caso, ma sul sentiero sicuro della Parola di Dio, letta, meditata, studiata, contemplata, cantata, vissuta, incarnata, incorporata. Per riassumere, non mi rimane che citare Dom Gérard: «Prima di essere delle accademie di scienza e dei crocevia della civilizzazione, i monasteri sono stati delle dita silenzione puntate verso il cielo, il richiamo ostinato, non negoziabile, che esiste un altro mondo di verità e di bellezza, di cui l’attuale non è che l’immagine, che esso annuncia e prefigura».

[Per aiutare i lavori di costruzione del Monastero Sainte-Marie de la Garde (47270 Saint-Pierre-de-Clairac, Francia), di cui abbiamo parlato già in altre occasioni (in particolare si veda: qui e qui), si rimanda al sito Internet http://www.jeconstruisunmonastere.com/]

Il monastero Sainte-Marie de la Garde
(credito fotografico: "Haut Relief")


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giovedì 13 ottobre 2011

Dedicatio Ecclesiæ Abbatialis

Oggi, 13 ottobre, presso l'abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux si festeggia la solennità della Dedicazione della chiesa abbaziale.
Ci uniamo di vero cuore alla gioia dei nostri monaci.
Ad multos annos !



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mercoledì 12 ottobre 2011

Benedizione abbaziale di Dom Jean Pateau O.S.B.


Quest’estate abbiamo dato notizia delle dimissioni di Dom Antoine Forgeot O.S.B. dalla carica di Padre Abate dell’abbazia Notre-Dame di Fontgombault, facente parte della Congregazione di Solesmes. In seguito la comunità monastica, secondo l’insegnamento della Regola di san Benedetto, ha provveduto a eleggere – il 18 agosto 2011 – il nuovo Padre Abate, quarto nella storia di Fontgombault: alla carica è stato eletto Dom Jean Pateau O.S.B., sino a quel momento Priore della celebre abbazia; originario della Vandea, 45 anni, Dom Pateau ha ricevuto una formazione scientifica e prima di entrare nella vita monastica ha insegnato Fisica presso il Collège Stanislas di Parigi. Il 7 ottobre 2011, nella festività della Madonna del Rosario, Dom Pateau ha quindi ricevuto la benedizione abbaziale dalle mani di S.E. mons. Armand Maillard, arcivescovo di Bourges, diocesi nella quale si trova l’abbazia di Fontgombault. Alla solenne cerimonia hanno partecipato circa 1.200 fedeli, fra i quali molti prelati. Riproduciamo di seguito alcune fotografie che ritraggono il nuovo Padre Abate, la processione, la cerimonia, i prelati partecipanti, e infine il blasone prescelto da Dom Pateau, per il ministero del quale invitiamo tutti i lettori di Romualdica a unirsi in una fervida preghiera al Signore, senza dimenticare un rendimento di grazie per il compito sin qui svolto da Dom Forgeot.















[Le immagini sono tratte dai siti Internet: La Nouvelle République, Una Voce, Le Forum Catholique]

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martedì 11 ottobre 2011

Abbandonare le realtà fuggevoli e cercare di afferrare l’eterno

“Fugitiva relinquere et aeterna captare”: abbandonare le realtà fuggevoli e cercare di afferrare l’eterno. In questa espressione della lettera che il vostro Fondatore [san Bruno di Colonia (1030-1101)] indirizzò al Prevosto di Reims, Rodolfo, è racchiuso il nucleo della vostra spiritualità (cfr. Lettera a Rodolfo, 13): il forte desiderio di entrare in unione di vita con Dio, abbandonando tutto il resto, tutto ciò che impedisce questa comunione e lasciandosi afferrare dall’immenso amore di Dio per vivere solo di questo amore. Cari fratelli, voi avete trovato il tesoro nascosto, la perla di grande valore (cfr. Mt 13,44-46); avete risposto con radicalità all’invito di Gesù: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; e vieni! Seguimi!” (Mt 19,21). Ogni monastero – maschile o femminile – è un’oasi in cui, con la preghiera e la meditazione, si scava incessantemente il pozzo profondo dal quale attingere l’“acqua viva” per la nostra sete più profonda. Ma la Certosa è un’oasi speciale, dove il silenzio e la solitudine sono custoditi con particolare cura, secondo la forma di vita iniziata da san Bruno e rimasta immutata nel corso dei secoli. “Abito nel deserto con dei fratelli”, è la frase sintetica che scriveva il vostro Fondatore (Lettera a Rodolfo, 4). La visita del Successore di Pietro in questa storica Certosa intende confermare non solo voi, che qui vivete, ma l’intero Ordine nella sua missione, quanto mai attuale e significativa nel mondo di oggi.
Il progresso tecnico, segnatamente nel campo dei trasporti e delle comunicazioni, ha reso la vita dell’uomo più confortevole, ma anche più concitata, a volte convulsa. Le città sono quasi sempre rumorose: raramente in esse c’è silenzio, perché un rumore di fondo rimane sempre, in alcune zone anche di notte. Negli ultimi decenni, poi, lo sviluppo dei media ha diffuso e amplificato un fenomeno che già si profilava negli anni Sessanta: la virtualità che rischia di dominare sulla realtà. Sempre più, anche senza accorgersene, le persone sono immerse in una dimensione virtuale, a causa di messaggi audiovisivi che accompagnano la loro vita da mattina a sera. I più giovani, che sono nati già in questa condizione, sembrano voler riempire di musica e di immagini ogni momento vuoto, quasi per paura di sentire, appunto, questo vuoto. Si tratta di una tendenza che è sempre esistita, specialmente tra i giovani e nei contesti urbani più sviluppati, ma oggi essa ha raggiunto un livello tale da far parlare di mutazione antropologica. Alcune persone non sono più capaci di rimanere a lungo in silenzio e in solitudine.
Ho voluto accennare a questa condizione socioculturale, perché essa mette in risalto il carisma specifico della Certosa, come un dono prezioso per la Chiesa e per il mondo, un dono che contiene un messaggio profondo per la nostra vita e per l’umanità intera. Lo riassumerei così: ritirandosi nel silenzio e nella solitudine, l’uomo, per così dire, si “espone” al reale nella sua nudità, si espone a quell’apparente “vuoto” cui accennavo prima, per sperimentare invece la Pienezza, la presenza di Dio, della Realtà più reale che ci sia, e che sta oltre la dimensione sensibile. È una presenza percepibile in ogni creatura: nell’aria che respiriamo, nella luce che vediamo e che ci scalda, nell’erba, nelle pietre… Dio, Creator omnium, attraversa ogni cosa, ma è oltre, e proprio per questo è il fondamento di tutto. Il monaco, lasciando tutto, per così dire “rischia”: si espone alla solitudine e al silenzio per non vivere di altro che dell’essenziale, e proprio nel vivere dell’essenziale trova anche una profonda comunione con i fratelli, con ogni uomo.
Qualcuno potrebbe pensare che sia sufficiente venire qui per fare questo “salto”. Ma non è così. Questa vocazione, come ogni vocazione, trova risposta in un cammino, nella ricerca di tutta una vita. Non basta infatti ritirarsi in un luogo come questo per imparare a stare alla presenza di Dio. Come nel matrimonio non basta celebrare il Sacramento per diventare effettivamente una cosa sola, ma occorre lasciare che la grazia di Dio agisca e percorrere insieme la quotidianità della vita coniugale, così il diventare monaci richiede tempo, esercizio, pazienza, “in una perseverante vigilanza divina – come affermava san Bruno – attendendo il ritorno del Signore per aprirgli immediatamente la porta” (Lettera a Rodolfo, 4); e proprio in questo consiste la bellezza di ogni vocazione nella Chiesa: dare tempo a Dio di operare con il suo Spirito e alla propria umanità di formarsi, di crescere secondo la misura della maturità di Cristo, in quel particolare stato di vita. In Cristo c’è il tutto, la pienezza; noi abbiamo bisogno di tempo per fare nostra una delle dimensioni del suo mistero. Potremmo dire che questo è un cammino di trasformazione in cui si attua e si manifesta il mistero della risurrezione di Cristo in noi, mistero a cui ci ha richiamato questa sera la Parola di Dio nella Lettura biblica, tratta dalla Lettera ai Romani: lo Spirito Santo, che ha risuscitato Gesù dai morti, e che darà la vita anche ai nostri corpi mortali (cfr. Rm 8,11), è Colui che opera anche la nostra configurazione a Cristo secondo la vocazione di ciascuno, un cammino che si snoda dal fonte battesimale fino alla morte, passaggio verso la casa del Padre. A volte, agli occhi del mondo, sembra impossibile rimanere per tutta la vita in un monastero, ma in realtà tutta una vita è appena sufficiente per entrare in questa unione con Dio, in quella Realtà essenziale e profonda che è Gesù Cristo.

[Benedetto XVI, Celebrazione dei Vespri nella Chiesa della Certosa di Serra San Bruno, 9 ottobre 2011]

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lunedì 10 ottobre 2011

Il monastero, modello di una società che pone al centro Dio

I monasteri hanno nel mondo una funzione molto preziosa, direi indispensabile. Se nel medioevo essi sono stati centri di bonifica dei territori paludosi, oggi servono a “bonificare” l’ambiente in un altro senso: a volte, infatti, il clima che si respira nelle nostre società non è salubre, è inquinato da una mentalità che non è cristiana, e nemmeno umana, perché dominata dagli interessi economici, preoccupata soltanto delle cose terrene e carente di una dimensione spirituale. In questo clima non solo si emargina Dio, ma anche il prossimo, e non ci si impegna per il bene comune. Il monastero invece è modello di una società che pone al centro Dio e la relazione fraterna. Ne abbiamo tanto bisogno anche nel nostro tempo.

[Benedetto XVI, Incontro con la popolazione di Serra San Bruno nel Piazzale Santo Stefano antistante la Certosa di Serra San Bruno, 9 ottobre 2011]

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lunedì 26 settembre 2011

Cortesia e civiltà

Quest’estate, durante un campo scout, una piccola chiesa delle Alpi ha ripreso vita. Messa, adorazione eucaristica, rosario: la sperduta parrocchia di montagna non aveva più visto qualcosa di simile da molto tempo. Ciò che è parso più stupefacente, agli occhi dei residenti, è stato il morale d’acciaio dei ragazzi, i quali cantavano e sorridevano nonostante una pioggia incessante. Soprattutto – lo credereste? – la brava gente del posto non ricordava più d’incontrare dei giovani che sanno ancora dire buongiorno.
In effetti, la cortesia sembra essere completamente scomparsa dal nostro mondo, a profitto di una scortesia amorfa e indifferente. Quando riaffiorano un po’ le buone maniere, sembra un’aurora piena di promesse e la speranza di un domani migliore.
Certamente, la cortesia non è innata. San Benedetto lo sapeva bene. L’esperienza gli aveva fatto perdere ogni illusione sulla natura umana decaduta dopo il peccato originale. Così, «l’uomo di Dio» aveva compreso che la cortesia è un’arte di vivere che si trasmette, e che va mantenuta, poiché tutto va ricominciato a ogni generazione.
Egli aveva perciò piena coscienza che la cortesia ha bisogno di un ambito indispensabile per svilupparsi. Essa è come un granello che esige una terra accogliente per dare frutti di civiltà. Per esempio, la buona terra della vita monastica. Dom Gérard lo ha notato: la cortesia ha posto radici nei chiostri e di là si è diffusa in tutta la cristianità. Attraverso un complesso di piccoli codici di vita comune, la Regola di san Benedetto ha levigato un po’ alla volta i caratteri grezzi dei monaci e di quanti venivano in contatto con loro.
Un esempio lungimirante di queste buone maniere è fornito nel capitolo dedicato all’accoglienza degli ospiti. Il rituale è definito con cura: «Quindi, appena viene annunciato l'arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore; per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace. […] Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in partenza […] con il capo chino o il corpo prostrato a terra» (RB, LIII,3-7).
La cortesia benedettina non riguarda solo gli estranei: essa feconda tutta la vita comunitaria, l’intera quotidianità. Perché, ammettiamolo, è più facile essere cortesi con uno sconosciuto durante il tempo di un breve incontro, piuttosto che con i propri fratelli durante la vita intera. San Benedetto vi si applica tramite minuziose indicazioni. Quando due fratelli s’incontrano, si salutano con un’inclinazione del capo; «quando passa un monaco anziano, il più giovane si alzi e gli ceda il posto, guardandosi bene dal rimettersi a sedere prima che l'anziano glielo permetta» (RB, LXIII,16); «quando si chiamano tra loro, nessuno si permetta di rivolgersi all’altro con il solo nome, ma gli anziani diano ai giovani l'appellativo di “fratello” e i giovani usino per gli anziani quello di “padre” [“nonni”; il termine nonnus, d’origine egizia, è stato abbandonato dai benedettini nel corso dei secoli, ma è rimasto in uso presso alcuni cistercensi]» (RB, LXIII,11-12). Le consuetudini hanno inoltre precisato che i fratelli non debbano interrompersi mentre dialogano e parlare a qualcuno a parte in presenza di terzi; a tavola sono invitati a offrire al proprio vicino la parte migliore; e così via.
Ciò nonostante, agli occhi di san Benedetto, la cosa più importante rimane lo spirito soprannaturale con il quale si compiono tali prescrizioni. Il nostro legislatore svela questo spirito nel capitolo dedicato all’accoglienza degli ospiti: «Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: “Sono stato ospite e mi avete accolto”» (RB, LIII,1). San Benedetto voleva che i suoi monaci vedessero Cristo presente in ogni uomo, e soprattutto nei sacerdoti, i religiosi e i poveri. Affinché un tale atto di fede s’incarni davvero nella vita di tutti i giorni, egli l’ha inscritto in un insieme di costumi concreti. La cortesia vissuta in spirito di fede diventa così quel fiore di carità capace di spalancare le porte alla presenza di Dio. In tal modo, essa trasfigura i cuori e il mondo.
Vedete come un semplice sorriso può salvare un’anima o, almeno, ricordarle la sua dignità di figlio di Dio! Notate ancora come il gesto di rispetto accordato a un sacerdote o a un superiore richiama chi siamo e i doveri che ne derivano! Quando un Padre Abate in ritardo vede tutta la comunità alzarsi per accoglierlo, egli si ricorda che rappresenta Cristo. Questa luce di fede rinforza il suo coraggio d’essere fedele alla propria missione.
Il Signore Gesù si dona a noi con profusione. Noi lo sappiamo presente nel tabernacolo, nella Sacra Scrittura o in taluni avvenimenti della nostra vita. Che arricchisca perciò ognuna delle nostre relazioni di una cortesia ispirata alla fede e alla carità! Lui solo conosce il benefico irradiamento che potremo perciò esercitare.

[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, Politesse et civilisation, editoriale di Les amis du monastère, n. 139, 15 settembre 2011, pp. 1-2, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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martedì 20 settembre 2011

Per non dimenticare Tibhirine

[Ci siamo già occupati – qui e qui – del martirio dei sette monaci cistercensi della stretta osservanza (trappisti) del priorato algerino Notre-Dame de l'Atlas di Thibirine. Lo facciamo ancora una volta riproducendo un articolo pubblicato da MissiOnLine.org, nel quale si annuncia il lancio del “sito ufficiale” del monastero dei monaci uccisi, con l’obiettivo di sostenere il progetto della diocesi di Algeri per tenere vivo questo luogo della memoria.]

È online da qualche giorno all’indirizzo http://www.monastere-tibhirine.org/ il sito del monastero di Tibhirine, il luogo del martirio dei monaci in Algeria riproposto recentemente all’attenzione del mondo dal film Uomini di Dio.
Il sito si inserisce nel progetto più generale della diocesi di Algeri per custodire questo luogo della memoria, particolarmente significativo nel nostro tempo.
«I monaci di Tibhirine – si legge in un comunicato diffuso in occasione del lancio del sito – hanno lasciato all’umanità un messaggio di fraternità indirizzato a ogni uomo e a ogni donna […]. La Chiesa d’Algeria vuole salvaguardare e trasmettere questa memoria, divenuta un patrimonio. Il sito ufficiale del monastero di Tibhirine presenta il monastero e la sua attualità, la sua storia insieme al messaggio dei monaci martiri. Permette inoltre ai visitatori e pellegrini, ogni anno più numerosi, di preparare il loro viaggio a Tibhirine. La diocesi di Algeri ha intrapreso il restauro del monastero e delle sue strutture d’accoglienza (foresteria, cappella). Il sito permette di raccogliere le offerte di tutti coloro che vogliono collaborare a questo progetto e sostenere questi lavori».
Oltre a raccontare la storia e a offrire numerose immagini del monastero e dei monaci, il sito racconta anche che cosa è oggi Tibhirine. Offre inoltre una ricognizione dei libri e dei film che hanno affrontato la vicenda dei monaci.

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mercoledì 24 agosto 2011

Benedetto e la bellezza

Ubi Benedictus ibi pulchritudo, verrebbe da dire ogniqualvolta ci si ritrovi, con stupore, in qualcuna di quelle vere e proprie oasi di bellezza scaturite dalla persona o dal carisma di san Benedetto da Norcia. Nelle grandi e celebri abbazie o nei piccoli e sconosciuti eremi si respira intatta la medesima scia di pace e di bellezza, di fusione tra la creazione divina e le opere umane, al punto da chiedersi – forse un po’ ingenuamente – se ci sia una “ricetta” particolare, se Benedetto abbia lasciato particolari direttive in proposito. Tuttavia compulsando la Regola benedettina alla ricerca del segreto si rischia di restare delusi: il termine “bellezza” non ricorre neanche una volta. Per il semplice motivo che non ce n’era bisogno: il segreto dei monaci è la loro stessa vita, poiché essi si dissetano costantemente alla fonte della bellezza.

La liturgia e la festa

Quella dei monaci è infatti una vita essenzialmente liturgica (“nihil Operi Dei praeponatur”, Regola, cap. XLIII), simile a quella degli angeli: non solo perché pregano incessantemente ma perché lo fanno disinteressatamente. “Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. […] È il 'servizio' per eccellenza, il 'servizio sacro' dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al di sopra di tutto, è degno 'di ricevere la gloria, l’onore e la potenza' (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato” (Benedetto XVI). Di conseguenza, perennemente immersi nella Trinità, essi ne escono trasfigurati – diventano “Geistliche (cioè persone spirituali)” – e non possono fare a meno di trasfigurare tutte le loro attività. Inconsapevolmente essi “ornano” il mondo, perché la loro vita è essenzialmente festiva proprio nella misura in cui è impregnata di liturgia. Il filosofo tedesco Josef Pieper ci aiuta a cogliere più approfonditamente il legame tra festa e culto in un saggio intitolato Sintonia con il mondo. Pieper ci spiega che la “vera” festa, ciò che comunemente definiamo come “una bella giornata”, più che nell’attivismo si situa al livello della contemplazione, dell’ammirazione; ma questo è possibile solo se si riesce a gettare lo sguardo sul fondamento del mondo, per scoprirne quell’originaria ed essenziale bontà che, malgrado il male presente, resta intatta e irrevocabile. Qualunque sia il motivo contingente, “per rallegrarsi di qualcosa si deve approvare tutto” (Friedrich Nietzsche, cit. in J. Pieper). Non stupisce quindi che Pieper definisca il culto come il nucleo, anzi “la forma più festiva della festa”, poiché alla radice del culto vi è il consenso verso il mondo intero: “È di fatto 'un illimitato dire di sì e amen'. Ogni preghiera si conclude con queste parole, così va bene, così dev’essere, così sia, ainsi soit-il. Ugualmente si deve supporre che si sentirà risuonare il canto di lode dell’Alleluja. Anche il culto celeste delle visioni apocalittiche è un’unica acclamazione composta da ripetute esclamazioni come 'lode', 'esaltazione', 'onore', 'ringraziamento'”, e lo stesso termine eucaristia significa “azione di grazie”. Non a caso la Pasqua e quindi la domenica è la festa fondamentale del cristianesimo, è il primo e l’ultimo giorno, beneficium creationis“era cosa molto buona” (Gn 1,31) – e imago venturi saeculi: dietro ogni liturgia cristiana, irradiazione della Pasqua, c’è la festa eterna della creazione e della ri-creazione, che si svolge al di là del tempo.

Lo sguardo su Dio

Benedetto XVI, in visita all’abbazia di Heiligenkreuz, identifica la vera “ricetta” della bellezza monastica in quel “non si anteponga nulla all’opera di Dio” (cioè all’ufficio divino), che Benedetto raccomanda ai suoi monaci, ricordando loro che la partecipazione interiore all’ufficio divino consiste nel considerare “come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli” (Regola XIX): “La bellezza di una tale disposizione interiore si esprimerà nella bellezza della liturgia al punto che là dove insieme cantiamo, lodiamo, esaltiamo ed adoriamo Dio, si rende presente sulla terra un pezzetto di cielo. Non è davvero temerario se in una liturgia totalmente centrata su Dio, nei riti e nei canti, si vede un’immagine dell’eternità. Altrimenti, come avrebbero potuto i nostri antenati centinaia di anni fa costruire un edificio sacro così solenne come questo? Già la sola architettura qui attrae in alto i nostri sensi verso 'quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano' (cfr 1 Cor 2,9)”. Non solo negli edifici sacri, poiché “in tutti i secoli i monaci, partendo dal loro sguardo rivolto a Dio, hanno reso la terra vivibile e bella. La salvaguardia e il risanamento della creazione provenivano proprio dal loro guardare a Dio”. E poiché bonum – ma anche pulchrumdiffusivum sui, dall’ora al labora, dagli altari ai campi, alle città, ai paesaggi, a partire da quell’unico sguardo (Ct 4,9) centrato su Dio è scaturita a raggiera, come un gigantesco ostensorio, un’intera civiltà plasmata anche visivamente dalla bellezza della liturgia. L’esempio dell’Austria, definita dal Papa Klösterreich – nel duplice senso di “regno di monasteri” e “ricca di monasteri” – vale per qualsiasi luogo fecondato dai figli di san Benedetto, dove persino l’ateo più accanito troverà ristoro per gli occhi e quindi per il cuore.

Bellezza e ordine

La vita liturgica dei monaci ci permette di scoprire anche un’altra dimensione della bellezza e della pace che ne deriva: l’ordine. Un monaco benedettino, François Cassingena-Trévedy, nel suo saggio su La bellezza della liturgia, mette in evidenza la connessione etimologica tra ornare e ordinare. La liturgia – che, ribadiamo, impregna tutta la vita, anzi tutto l’essere del monaco – mette ordine, tra le altre cose, anche nel tempo e, nello spazio, in vista del ripristino di quell’ordine primordiale, a cui ogni uomo tende naturalmente poiché è la cifra che lo stesso Creatore ha iscritto nella creazione, e che si manifesterà compiutamente dopo la risurrezione: il mondo dei risorti sarà un mondo ordinato intorno a Cristo per celebrare una liturgia eterna. La liturgia ordina innanzitutto il tempo, se ne appropria per riempirlo di significato, riproponendo attraverso i vari cicli – da quello diurno della liturgia delle ore a quello annuale incentrato sulla Pasqua, sul Natale e sulle feste dei santi – il mistero multiforme di Cristo che essa inculca sempre più profondamente in noi mediante un movimento a spirale. La liturgia si appropria e instaura un nuovo ordine anche nello spazio e nelle realtà materiali e chiama a raccolta e porta a compimento tutta la creazione: niente in essa ha una funzione puramente decorativa, anzi tutti gli elementi (pane, vino, acqua, fuoco, ecc.) del mondo diventano addirittura co-liturghi – così come l’architetto Gaudì “introdusse dentro l’edificio sacro [della Sagrada Familia] pietre, alberi e vita umana, affinché tutta la creazione convergesse nella lode divina” (Benedetto XVI).

La nuova creazione

La sintonia col mondo, il ripristino dell’ordine originario è particolarmente evidente nei cosiddetti “salmi cosmici” che concludono le lodi chiamando a raccolta tutti gli elementi della creazione – stelle, acque, nevi, venti, pesci, uccelli, greggi, uomini – affinché tutti “laudent nomen Domini”. Quest’ordine non può che scaturire da un cuore “ordinato” e guarire le ferite degli altri cuori, contagiandoli con la nostalgia del tempo in cui “il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato” (Gn 2,8). Infatti, grazie alla liturgia, i monaci vivono allo stesso tempo nell’Eden e nella Gerusalemme celeste. Senza dimenticare la terra, al contrario, irradiando anche visibilmente su di essa lo splendore del Paradiso.

[Articolo di Stefano Chiappalone dal blog Continuitas, riprodotto con la cortese autorizzazione dell'autore]

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domenica 21 agosto 2011

Atto di consacrazione dei giovani al Sacro Cuore di Gesù

[Durante l'adorazione eucaristica con i partecipanti alla Giornata mondiale della Gioventù di Madrid, nella veglia del 20 agosto 2011 all'aeroporto di Cuatro Vientos, Papa Benedetto XVI ha pronunciato il seguente atto di consacrazione dei giovani al Sacro Cuore di Gesù.]

Signore Gesù Cristo, Fratello, Amico e Redentore dell'uomo guarda con amore i giovani qui riuniti e apri loro la sorgente eterna della tua misericordia che sgorga dal tuo cuore aperto sulla Croce. Docili alla tua chiamata, sono venuti per stare con te e adorarti. Con preghiera ardente li consacro al tuo Cuore perché, radicati e fondati in te siano sempre tuoi, nella vita e nella morte. Giammai si allontanino da te! Concedi loro un cuore come il tuo mite e umile perché ascoltino sempre la tua voce e i tuoi insegnamenti, compiano la tua Volontà e siano in mezzo al mondo lode della tua gloria, perché gli uomini contemplando le loro opere diano gloria al Padre.





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Gustave Thibon, testimone di speranza


[Ci siamo occupati a più riprese del "filosofo contadino" Gustave Thibon (1903-2001), del quale abbiamo in varie occasioni tradotto su Romualdica alcuni scritti (fra cui, nel 2009 e in sei puntate, l’articolo L'equilibrio in altitudine. Meditazioni sulla Regola; nel 2010 un inedito; e nel 2011 l'in memoriam della rivista Cristianità). Una nuova occasione per parlare di Thibon, nel decimo anniversario della sua scomparsa, ci è offerto dal seguente articolo di Emiliano Fumaneri, comparso il 20 agosto 2011 su La Bussola Quotidiana, che riproduciamo con la cortese autorizzazione del quotidiano online.]


L'uscita nelle sale cinematografiche del film Le stelle inquiete, dedicato a un episodio della vita della filosofa Simone Weil (1909-1943), ha avuto il non indifferente pregio d'aver reso nota al pubblico italiano anche la figura del pensatore cattolico Gustave Thibon (1903-2001), il "filosofo-contadino" (philosophe-paysan), l’autodidatta in grado di impratichirsi con le lingue classiche e quelle moderne, lo studioso di Ludwig von Klages, Nietzsche, San Tommaso e della mistica carmelitana capace di guadagnarsi l'ammirazione di figure imponenti del panorama culturale europeo.
Gustave Thibon nasce nel 1903 a Saint-Marcel d’Ardèche (Midi di Francia) da una famiglia contadina. La stretta comunione con i ritmi della natura e la familiarità col silenzio accumulano in lui quelle profonde, vaste riserve interiori che riverserà nelle sue opere. Nel 1916, dopo aver frequentato la scuola comunale, si vede costretto ad abbandonare gli studi per dedicarsi al lavoro nei campi. Alieno da preoccupazioni religiose, trascorre un'adolescenza agnostica. A diciotto anni è assalito però da una veemente passione per la conoscenza. Con impeto febbrile si getta nello studio delle lingue, impara da solo il latino, il greco e il tedesco. Affronta testi di filosofia e teologia, si cimenta anche nella matematica e la biologia.
Thibon si riconcilia con la fede cattolica dell'infanzia grazie alla lettura di Léon Bloy (1846-1917) e all'incontro con Jacques Maritain (1882-1973), cui deve la scoperta dell'opera di San Tommaso d'Aquino. Maritain lo incoraggia a scrivere e la sua amicizia (interrotta in seguito a divergenze di giudizio su Charles Maurras e l'Action française) gli permetterà di pubblicare i primi articoli sulla Revue Thomiste.
È sempre l'incoraggiamento degli amici a consentirgli di vincere la naturale inclinazione alla modestia e spingerlo così a pubblicare, nel 1940, l'opera che lo rivela al grande pubblico: Diagnostics. Essai de physiologie sociale, cui segue Retour au réel. Nouveaux diagnostics (1943). Il primo dei due saggi verrà fatto tradurre e pubblicare nel 1947 dalla Morcelliana con il titolo di Diagnosi. Saggio di fisiologia sociale. Grazie all'interessamento di Marco Tangheroni (1946-2004), nel 1973 le Edizioni Volpe pubblicano una nuova traduzione di Diagnosi che fa seguito, a distanza di un anno, alla prima edizione italiana di Ritorno al reale. Nuove diagnosi (1972). Nella nostra lingua sono state tradotte anche le raccolte di aforismi thiboniani La scala di Giacobbe (1947), Il pane di ogni giorno (1949), L'uomo maschera di Dio (1971). Sono stati pubblicati anche Quel che Dio ha unito. Saggio sull'amore (1947), Vivere in due (1955), Crisi moderna dell'amore (1957), Nietszche o il declino dello spirito (1964). Infine va segnalato il libro-testimonianza scritto col padre domenicano Joseph-Marie Perrin, Simone Weil come l'abbiamo conosciuta (2000).
La profondità del pensiero, la penetrante lucidità del giudizio e la folgorante bellezza dello stile gli valgono ben presto la considerazione di altri prestigiosi intellettuali come Marcel de Corte (1905-1944), Gabriel Marcel (1889-1973), Henri Massis (1886-1970). Ma l'incontro che segnerà maggiormente la sua vita spirituale e intellettuale è quello con Simone Weil. In fuga dai nazisti, nell'estate del 1941 la Weil trova rifugio presso la fattoria di Thibon. Tra l’inquieta pensatrice di origini ebraiche e il filosofo-contadino si instaura un rapporto profondo improntato alla massima schiettezza e a un'altissima stima reciproca, tanto che Simone decide di affidargli i propri manoscritti. Dopo la prematura morte della filosofa (1943) sarà Thibon a incaricarsi di farne conoscere il nome al mondo pubblicando alcuni estratti dei suoi diari col titolo La pesanteur et la grace (1948), edito in italiano come L'ombra e la grazia (trad. it., Comunità, Milano 1951).
Alla morte, che lo coglie nel 2001, Gustave Thibon lascia al mondo – oltre a tre figli, i nipoti e un ricordo indelebile nel cuore di chi l'ha conosciuto – una ventina di opere, innumerevoli articoli e testi di conferenze, senza contare la considerevole mole di scritti rimasti impubblicati.
Su due princìpi poggia l'architrave del pensiero thiboniano: l’opposizione agli idoli e l’amore per l’unità. Due momenti che però «si fondono in un unico, perché l’idolo rappresenta la parte innalzata al tutto, ma soltanto distruggendo gli idoli si può ricostruire l’unità» (Il pane di ogni giorno, Morcelliana, 1949, p. 10). «Dio non ha creato che unendo», osserva Thibon. Il peccato, il dramma dell'uomo consiste nel separare ciò che Dio ha unito: «La metafisica della separazione è la metafisica stessa del peccato» (Quel che Dio ha unito, Società Editrice Siciliana, 1947, p. VI).
Il nostro tempo, segnato dall'oblio dell'Essere e delle verità supreme, è funestato dalla lotta feroce e senza quartiere tra gli idoli. Non può che essere la guerra endemica la condizione strutturale di un mondo dominato da false divinità: nessuna di esse può permettere alle altre di elevarsi al di sopra di tutte per reclamare la signoria spettante all'unico vero Dio. Il conflitto tra gli idoli garantisce così l’impossibilità di ogni autentica trascendenza.
Procurare la morte rappresenta la vera vocazione dell’idolatria: la sete di sangue divora l'idolo, mentre l’odio viscerale per l’Essere lo vota al nulla e alla menzogna. Per il Socrate cristiano vivente in Thibon l'autentico spirito filosofico consiste invece «nel preferire alle menzogne che fanno vivere le verità che fanno morire» (L'ignorance étoilée, Fayard, 1985, p. 45). Thibon fa dunque idealmente suo il detto di Tolkien: "le radici profonde non gelano". Così è delle verità più semplici e ordinarie: la profondità degli abissi appartiene al grande, immenso oceano della normalità. Piatta e superficiale è solo la terra calpestata dagli idoli.
«Il thibonismo è una filosofia del buon senso», ha scritto Hervé Pasqua. La vera saggezza sta nell'essere fedeli tanto al "realismo della terra" quanto alle verità eterne del cielo, giacché «le cose supreme non fioriscono che al di là della tomba. Ma esse cominciano quaggiù e la loro fragile semenza è nei nostri cuori, e niente fiorisce nel cielo, che non sia prima germogliato sulla terra» (La scala di Giacobbe, AVE, 1947, p. 102).
Il mondo moderno è impazzito, sostiene Chesterton, «non tanto perché ammette l'anormalità, ma perché non sa ritrovare la normalità». L'epoca della secolarizzazione ha oltraggiato e decomposto infine la stessa natura umana; ecco perché si rende necessaria anzitutto un'opera di "apostolato del senso comune". «Un tempo – scrive il filosofo francese in un celebre passo di Ritorno al realeil cristianesimo dovette lottare contro la natura: quella natura era tanto dura, tanto ermeticamente chiusa che la grazia durava fatica a intaccarla. Oggi dobbiamo lottare per la natura, al fine di salvare il minimo di salute terrena necessaria all’innesto del soprannaturale».
Estraneo all’evanescente spiritualismo che abbandona al male le realtà terrene come al perfettismo incarnato dal mito del progresso tecnico necessario e inarrestabile, più che un "iconoclasta della reazione" – alla maniera del colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), al quale pure è accomunato da numerose affinità, anche stilistiche – Thibon è un "testimone della speranza". «L'epoca in cui tutto si è perduto», scrive, «è anche quella in cui tutto si può ritrovare» (Entretiens avec Gustave Thibon, par Philippe Barthelet, La Place Royale, 1988, p. 175). Schierato a favore della positività ultima del reale, il suo è un appello al riconoscimento della "verità delle cose". La speranza poggia sulla pienezza dell'essere, in ultima istanza sull'onnipotenza divina. Dio è, è l'Essere. L'idolo, il non-essere: l'idolatria è la religiosità della disperazione. Crolla così il presupposto della gnosi eterna: l'irredimibile, disperata negatività della realtà creata. È l’amore a svelare il mistero stesso dell’essere.
Se la metafisica della speranza thiboniana si rivela impermeabile ai fuochi fatui del progressismo, certo non indulge alle suggestioni "tradizionaliste" delle utopie "archeologiche". «Che m’importa dunque il passato in quanto passato? Non vi accorgete che quando piango sulla rottura di una tradizione, è soprattutto all’avvenire che penso. Quando vedo marcire una radice, ho pietà dei fiori che seccheranno domani per mancanza di linfa» (L’uomo maschera di Dio, SEI, 1971, p. 258). La devota memoria del passato non deve indurci a «considerare la morte delle cose mortali come una sconfitta irreparabile. Non aggrapparsi totalmente, disperatamente alla materialità (nel senso più ampio) di una tradizione, di una istituzione, d'un regime. Occorre salvare l'anima delle cose cui il vento della morte ha spazzato via il corpo» (Parodies et mirages ou la décadence d'un monde chrétien. Notes inédites [1935-1978], Éditions du Rocher, 2011, p. 20). L'affermazione di valori soprastorici ed eterni non va confusa con l’immagine di una realtà storica compiuta e realizzata. «La vera fedeltà non consiste [...] nell’impedire ogni cambiamento, ma più precisamente nell’impregnare ogni cambiamento di eterno» (Crisi moderna dell'amore, Marietti, 1957, p. 8).
Il philosophe-paysan sa bene che se è preclusa la via del ritorno al paradiso terrestre, ostruita dalla misteriosa realtà del peccato originale, nondimeno l'uomo, come direbbe Gomez Dàvila, "respira male in un mondo non attraversato da ombre sacre". L'ideale della cristianità non può essere accantonato superficialmente. Certo: il regno di Dio non è di questo mondo; occorre scansare il ricorrente «mito dell'uomo collettivo», la tentazione idolatrica che nel "Grosso Animale" platonico (cfr. Repubblica, VI, 492-493) trova forse l'immagine più eloquente.
Ciononostante, è la stessa natura umana a richiedere «una civiltà dove il temporale è irrigato senza posa dall'eterno» (Préface a Dom Gérard Calvet O.S.B., Demain la Chrétienté, Dismas, 1986, p. 11). Il cristiano deve spendersi anche per una società centrata su Dio, portatrice e trasmettitrice dei valori eterni (il Vero, il Bello e il Bene), in cui le tradizioni e i costumi siano intermediari (metaxu) tra l'uomo e il suo fine trascendente. «La nostra eternità non è la negazione del tempo, ne è la fidanzata» (Il pane di ogni giorno, cit., p. 165). L'esempio stesso dei santi mostra che i cristiani devono essere al tempo stesso «visionari del cieli e prodigiosi operai sulla terra».
Al contrario, un mondo impregnato della mera "terrestrità" auspicata da Gramsci nei Quaderni del carcere, imperniato cioè sul principio dell'uomo "misura di tutte le cose", è generatore di una dis-società: un coacervo di individui atomizzati retto unicamente dal precario equilibrio dei rapporti di forza. Lo stesso termine "equilibrio" è sintomatico, chiosa Thibon: «L'equilibrio concerne unicamente la quantità, la pesantezza, i rapporti di forza. L'armonia implica la qualità e la convergenza di qualità verso un fine comune» (L'équilibre et l'harmonie, Fayard, 1976, p. XI).
La nevrosi egualitaria che agita il nostro tempo va ricondotta all'abbandono di questa essenziale distinzione. L'assolutizzazione del principio di uguaglianza si esprime nella legge del numero. Ma il trionfo del quantum non lascia spazio se non al "mondo in frantumi" scaturito dallo scontro di esseri massificati e gruppi "sconnessi" tra loro, senza alcun legame – prima di tutto interiore – a unirli.
Tragiche sono le conseguenze: il conflitto «eretto a legge permanente delle società» e la «generalizzazione della violenza» che sempre più diviene «l'unico mezzo di farsi intendere e ottenere soddisfazione» (ibidem). Si spiega così perché in questo "regno della quantità" si sia imposta la metafora dell'equilibrista in luogo di quella dell'accordatore, l'armonizzatore di suoni. Ma «l'equilibrismo ha fatto il suo tempo, non abbiamo che la scelta tra i due termini di questa alternativa: restaurare, mediante l'armonia, un ordine vivente o lasciarci imporre un ordine morto e mortale da una forza senz'anima che annichilirà tutte le altre» (ibid.).
La ragione spietatamente calcolatrice dell’uomo-massa è incline a organizzare il suo spazio di vita alla stregua di una macchina, plasmandolo per mezzo della tecnica. Sintomo di questa patologia è la crescente diffusione di organismi sociali artificiali, di collettività anonime in seno alle quali gli uomini, puri ingranaggi di una megamacchina sociale, agiscono come funzionari irresponsabili. Questi raggruppamenti trascurano la legge fondamentale dell’armonia e della durata di una società: la legge della comunità di destino, fondata sul principio di interdipendenza o di reciproca solidarietà.
Nella comunità di destino – il cui esempio più tipico è rappresentato dalla famiglia – l’interesse personale coincide invece con l’assolvimento del proprio dovere. Una società è sana, afferma Thibon, nella misura in cui tende ad attenuare la tensione tra interesse e dovere, è malsana nelle misura in cui tende a esasperarla.
Per l’Occidente "sazio e disperato", sfregiato dai resti delle ideologie totalitarie, il realismo thiboniano reca quindi un grande messaggio di speranza: «L'unica nobiltà dell'uomo, la sola via di salvezza consiste nel riscatto del tempo per mezzo della bellezza, della preghiera e dell'amore. Al di fuori di questo, i nostri desideri, le nostre passioni, i nostri atti non sono che “vanità e soffiar di vento”, risacca del tempo che il tempo divora. Tutto ciò che non appartiene all'eternità ritrovata appartiene al tempo perduto» (L'uomo maschera di Dio, cit., p. 262). 

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