lunedì 31 gennaio 2011

Quel che dobbiamo a san Benedetto / terza parte

[la prima parte qui; la seconda parte qui]

La riconoscenza che dobbiamo al Patriarca dei monaci non si ferma al dominio della preghiera, ma si estende a tutta la vita. Una vita che appartiene, nonostante la spaventosa standardizzazione moderna, a una ritrovata età infantile, a un’epoca di costumi ancora contadini, in cui i ritmi scanditi dal ritorno delle stagioni si sposano ai tempi regolari della preghiera.
Quel che Newman chiamava «il carattere virgiliano dei primi secoli del monachesimo» durerà finché i monaci acconsentiranno a vivere in continuità, e non in rottura, con le loro tradizioni. Allora, immancabilmente, fiorirà la pace benedettina, accompagnata da una certa felicità. Una tale felicità non è legata a un’epoca della civiltà, ma è essenzialmente il frutto di una carità comunitaria e familiare, fatta di mutuo rispetto, di devozione, di attenzioni e di pietà nei confronti degli anziani. La felicità di ascoltare assieme le sante letture, di coltivare la terra – immagine della bontà di Dio – e di trarne un cantico di benedizione; di vivere in un laborioso riposo, in una specie di grande villaggio o di piccola città le cui mura salgono notte e giorno verso Dio con il canto dei salmi. Quando Newman parla dei primi benedettini, evoca lo spirito d’infanzia: «Ci dicono di essere come dei bambini, e dove troveremo un esempio più impressionante di quello che ci è qui offerto, di questa unione di candore e di rispetto religioso, questa chiara percezione dell’invisibile, e tuttavia il riconoscimento del mistero, che è la caratteristica dei primi anni dell’esistenza umana? Per il monaco, il cielo era la casa vicina. Non faceva dei piani, non aveva preoccupazioni; i corvi del suo padre Benedetto erano sempre al suo fianco. Usciva, nella sua gioventù, per le sue mansioni e il suo lavoro, fino alla sera della sua vita. Se viveva un giorno di più, faceva un giorno di lavoro in più. Che avesse vissuto un grande numero di giorni o pochissimi, lavorava fino alla fine. Non aveva alcun desiderio di vedere più lontano che il luogo dove doveva fare la sua prossima tappa. Lavorava e seminava; pregava, meditava, studiava, scriveva, insegnava, poi moriva e andava in cielo».
Uno spirito di dolcezza fatto di rinuncia e di obbedienza filiale, «gradito a Dio e dolce agli uomini». Una sottomissione abituale, familiare – come andando da sé – alla natura delle cose. Così, nel capitolo 41 della Regola il nostro santo Padre chiede che «l’ora della cena o del pasto sia regolata in modo tale che tutto si compia alla luce del sole». «Ut luce fiant omnia». Il Padre Emmanuel osserva che san Benedetto, parlando della luce del sole, doveva pensare alla luce soprannaturale nella quale la vita dei monaci è costantemente bagnata. Forse il miracolo benedettino, la longevità di questa grande tradizione, il suo carattere d’universalità, vengono dall’accordo segreto fra la natura e la grazia.
Arriverei a dire che nel cuore del nostro grande Patriarca appare spesso una certa tenerezza per l’ordine temporale. Come se le cose che circondano le anime consacrate ne ricevessero una nuova dignità e attirassero più particolarmente la sua paterna sollecitudine. Quanti capitoli della Regola sono testimoni di questo! Nel capitolo 22, Quomodo dormiant monachi («Come devono dormire i monaci»), la Regola vuole che «dormano vestiti e cinti con cingoli o corde, evitando di avere coltelli al fianco mentre dormono», per timore che abbiano inavvertitamente a ferire un fratello durante il sonno. Nel capitolo 31, Il cellerario del monastero, «tratti tutti gli oggetti e tutti i beni del monastero come i vasi dell’altare». Nel capitolo 37, I vecchi e i bambini, è detto che «la natura ha già innato un senso di indulgente comprensione verso gli anziani e i bambini; tuttavia è bene che anche la Regola, con la sua autorità, provveda a loro riguardo». Capitoli 39 e 40, sulla misura del cibo e del bere: «possano bastare due vivande cotte», della frutta, una libbra di pane, «una emina di vino al giorno»… La Regola si occupa inoltre degli ospiti, dei bambini e dei pellegrini, dei vestiti (cap. 55: «una tonaca e una cocolla; questa sia di pelo, per l’inverno, di stoffa liscia o consumata, per l’estate»). Ugualmente è stabilito (cap. 67) che «il monastero sia strutturato in modo da avere nel suo ambito tutto quanto è necessario, ossia l’acqua, il mulino, l’orto e le attrezzature per esercitare il loro mestiere. Così i monaci non avranno necessità di girare fuori». Ma lasciamo queste umili creature alla loro funzione di accompagnatori dell’uomo verso la sua ascesa al Padre. Esse hanno le loro leggi, le loro esigenze, alle quali talora ci opponiamo: svolgere rettamente un dato lavoro, fosse pure il più elementare, può diventare una lezione ricca d’insegnamento.
Giacché l’ordine temporale diventa tanto più nobile quanto più riguarda l’uomo da vicino. Come non menzionare il valore educatore della Regola e la correttezza del suo approccio sugli esseri di tutte le epoche e di ogni tipo? Il Patriarca di Norcia aveva legiferato nell’epoca del Basso Impero, al centro di un’umanità in pieno rivolgimento; il crocevia di razze e di civiltà conduceva al monastero un flusso di umanità nel quale si mescolavano patrizi, Goti analfabeti, schiavi resi liberi. Quattordici secoli più tardi è a una realtà analoga che si trova confrontata l’opera di fondazione dei nostri monasteri nel continente Iberoamericano o nell’Africa nera. Si percepisce quindi in tutto il suo splendore l’accordo fra la Regola e l’umano. La struttura tradizionale del villaggio africano, il ruolo del capo, il senso del rito e della gerarchia, lo spirito comunitario, il consiglio degli anziani, sono già livellati con lo spirito della Regola.
Ma i barbari tecnologizzati di un secolo XXI sprovvisto di ogni senso religioso – diversamente da quelli del passato, presso i quali l’ateismo era un fenomeno ignoto – si lasceranno attrarre dalla dolce influenza benedettina? Anche in questo, scommettiamo per il successo. A una condizione, ovvero che i giovani barbari che la società ci prepara al giorno d’oggi abbiano la medesima sete di cultura cristiana di quanto l’ebbero per la romanità i Goti del secolo VI.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Ce que nous devons à saint Benoît, in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 527-541 (qui pp. 533-537), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. / 3 - continua]

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