mercoledì 27 aprile 2011

Una regola di vita interiore / quinta parte

[Icona realizzata nel Monastero
San Benedetto di Bergamo]
[la prima parte qui; la seconda parte qui;
la terza parte qui; la quarta parte qui]

La direzione spirituale

Duemila anni di esperienza dimostrano che dopo che Dio si è fatto uomo, è attraverso gli uomini che gli uomini sono condotti a Dio. Ma non è dato a tutti di incontrare un direttore sicuro e chiaro, capace di condurre le anime sulle vie di Dio. Santa Teresa del Bambino Gesù non ne ha mai avuto nessuno. È palese che Dio voleva illuminarla direttamente perché insegnasse alle anime la via dell’infanzia spirituale. Ma fin dalle prime epoche della storia della Chiesa, la tradizione testimonia per una paternità spirituale del sacerdote sui fedeli. Questa direzione dev’essere decisa, prudente e rispettosa verso il mistero delle anime. Santa Teresa d’Avila insiste perché il padre spirituale abbia un retto giudizio, esperienza e che sia un uomo di dottrina. L’utilità del padre spirituale si manifesta soprattutto nel momento in cui, svezzato dalla pietà sensibile, si entra nella notte dei sensi. Questa fase della vita di preghiera essendo talvolta molto provante, il direttore dovrà discernere con cura i tre segni indicati da san Giovanni della Croce, che distinguono l’ingresso nella via illuminativa:
– non trovare gusto e consolazione né nelle cose divine né nelle cose umane;
– conservare in sé un vivo desiderio di servire Dio e il timore di spiacergli;
– difficoltà nella meditazione discorsiva e attrazione per l’orazione di semplicità.
La condotta da tenere con il direttore è detta in due parole: apertura d’animo e docilità. Conosciamo il pensiero di san Bernardo: «Colui che dirige sé stesso si fa discepolo di uno stupido». Si leggono nelle memorie di Pascal queste parole lapidarie: «Obbedienza assoluta al mio direttore».
La dipendenza nei confronti del padre spirituale gode di numerosi vantaggi: libera l’anima dagli scrupoli, elimina le illusioni, mortifica la volontà propria. Infine, l’obbedienza al direttore rende virile la vita spirituale e la preserva dalle analisi e dai rimorsi su sé stessi che nuociono grandemente alla vita dell’anima. Ricordatevi le sobrie parole di san Luigi a suo figlio: «Confessati spesso e scegli dei confessori virtuosi e saggi, che sappiano istruirti in quello che devi fare o evitare, e dai ai tuoi confessori la libera facoltà di riprenderti e avvertirti». Il demonio, infatti, non teme niente quanto l’apertura dell’anima, e certe tentazioni umilianti trovano in questo il loro ultimo rimedio.

Il dovere di stato

In una battuta nel suo stile, Blaise Pascal ha detto tutto sulla gravità del dovere di stato: «Fare le cose piccole come le grandi a causa della maestà di Gesù Cristo che le fa in noi e che vive la nostra vita, e le grandi come le piccole e facili a causa della sua onnipotenza». Ci sono due princìpi attorno ai quali si articolano e si distribuiscono le azioni della vostra giornata: il dovere di stato e la carità verso quelli che sono più vicini. È sempre in dipendenza di questa doppia esigenza che si dovrà adattare la lettura e l’orazione. Volendo intervenire sull’ordine delle cose, si rischia d’illudersi. Il vostro coniuge e i vostri figli devono trovarvi sempre disponibili. Rifugiatevi allora nell’istante presente. Ricchezza dell’istante presente: il passato non esiste più, l’avvenire non esiste ancora, ma l’istante presente ci lega immediatamente alla presenza eterna di Dio.

L’esame di coscienza

Trascrivo per voi quello che diceva Padre Emmanuel alle anime che gli erano affidate: «L’esame di coscienza è uno sguardo che gettiamo sulla nostra anima, a somiglianza dello sguardo che Dio vi getterà nel momento della nostra morte. Allora il Buon Dio approverà ciò che sarà buono, riproverà ciò che sarà cattivo, e a seconda che lo avremo meritato ci metterà in cielo, in purgatorio o all’inferno. C’è un altro metodo che si chiama esame particolare e che analizza solo un punto. Come la nostra anima ha praticato quella virtù? Come ha lavorato per correggere quella mancanza? Come ha praticato quella virtù nell’esplicare i propri doveri? L’esame particolare è un potente soccorso all’anima. Bisogna farlo tutti i giorni, e molto attentamente. Prometto il cielo, e un alto grado di gloria in cielo, a colui che farà bene tutti i giorni l’esame particolare». Insegnate ai vostri figli a fare lo stesso ogni sera prima di recitare l’atto di contrizione, nel momento di preghiera in famiglia.
Ricordatevi ciò che diceva Dom Romain: «I due grandi ostacoli alla vita interiore sono le mancanze non riconosciute e gli sbagli non riparati».

Lo stato matrimoniale

Non meravigliatevi se sentite talvolta una nostalgia per la verginità consacrata: questo è il più alto grado tra gli stati di vita ai quali ci chiama nostro Signore nei Vangeli. C’è in ogni donna sia l’attrazione per la maternità sia una segreta attrattiva per lo stato delle vergini. Questo deriva dal carattere misterioso e profondo della vocazione di essere donna. Senza dubbio lo stato matrimoniale appartiene alla vita comune, ma non deve mai apparire come una via facile che dispensa dalla perfezione. Tutto è detto nella Casti connubii di Pio XI. La Chiesa ricorda l’austero dovere; Dio dà la grazia. Ecco come si esprime a riguardo Louis Veuillot: «Lei troverà che la Chiesa si immischia in troppe cose: noi la benediciamo, noi… perché impone un periodo per l’attesa, per la riflessione, un confessore, la preghiera: il matrimonio è uno stato santo, bisogna entrarvi tremando, non come in un luogo di piaceri, ma come in una via con dei doveri, alcune volte aspra, sempre laboriosa, dolce solo come il resto delle cose della vita, a forza di sacrifici».

La mortificazione

Bisogna esercitare una sorveglianza costante sulla pesante disabilità che grava sulla nostra natura ferita a causa del peccato originale. In pratica, tenete bene in mano le redini che governeranno, in mezzo alle proprie mancanze abituali, quattro vizi rampanti. Li nomino: il «picolo orgoglio», la pigrizia, la gola, la lussuria. Dominarne uno, significa placarli tutti. Sono da aggiungersi gli sforzi di pazienza, dominio di sé, accettazione dei propri mali e delle contrarietà. Ci sono insomma delle mortificazioni invisibili. Ma sono l’amor proprio e la suscettibilità che saranno i vostri più acerrimi nemici. Accettate le gioie che Dio vi dona, ma abbiate cura di non cercarne. Fate ogni cosa per la gloria di Dio. È il metodo dei santi.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Une règle de vie intérieure, originariamente in Itinéraires, n. V (seconda serie), marzo 1991; poi, in versione aumentata, come pubblicazione a sé stante dal titolo Une règle de vie, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1994; da quest’ultima ripresa in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 376-402 (da cui la presente traduzione; qui pp. 388-393), trad. it. delle monache del Monastero San Benedetto di Bergamo / 5 - continua]

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sabato 23 aprile 2011

Exultet


O beata nox!

La notte di Pasqua è il cuore dell’anno liturgico. Una lunga fila di fedeli preceduta dal diacono portacero entra nella chiesa ancora debolmente illuminata, quando, in mezzo al coro, prorompe il Præconium paschale:

Exultet iam angelica turba cælorum
Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste

Eccoci davanti a uno dei più antichi e sontuosi monumenti della pietà liturgica della Chiesa.
Forse non esiste altro esempio di un discorso teologico così esatto, sostenuto da un’onda così alta e potente di poesia, dove l’immagine e l’idea siano così perfettamente legate alla corrente di gioia e d’amore che il canto eleva.
Teologia, poesia, musica sono allora una sola cosa al servizio della preghiera sacramentale. La «voce della Sposa» lascia fondere accenti così particolari e riconoscibili che un figlio di Israele, per averlo inteso una sola volta, stimò che il lirismo della sinagoga fosse passato alla Chiesa e si risolse a convertirsi.
Ignoriamo l’origine esatta di questo pezzo magistrale chiamato sia laus cerei sia præconium paschale, espressione che bisognerebbe tradurre con canto o «elogio dell’araldo pasquale», ma che dev’essere ascoltato ed eseguito nel suo tenore originale, il latino dei Padri, che è una lingua decisa, fruttata, dalle cadenze nobili e armoniose.
L’antica liturgia romana non conosceva, in origine, né il rito di benedizione del fuoco nuovo, né il canto dell’Exultet. La prima parte della vigilia pasquale è stata introdotta a Roma all’inizio del periodo carolingio sotto l’influsso della liturgia gallicana.
Sappiamo che i nostri avi avevano un cuore esuberante e gioioso; la natura, che li aveva dotati di un coraggio leggendario, li portava anche a meravigliarsi con libertà davanti a cose sacre, a ciò che è dono di Dio. Roma aveva portato ordine e disciplina. Qualche tempo più tardi, lo spirito della liturgia gallicana, grazie al prestigio della dominazione franca, rifluiva nell’antica e sobria tradizione primitiva, associando la libera ispirazione alla gravità romana. Possiamo vedervi un sorriso della Provvidenza.
Tra le composizioni assai difformi create tra il IV e il V secolo, è sorprendente che la liturgia abbia scelto e fissato il nostro Exultet. Gli uomini sono uomini. Ciò che un retore ciceroniano in vena d’eloquenza poteva infliggere agli uditori dell’epoca ha di che far fremere. Si tramanda che il diacono Presidio di Piacenza, avendo chiesto consiglio a san Girolamo – nel 384 – per la composizione di un Præconium paschale, si sentisse rispondere dal suo rude corrispondente: «Lasci la retorica e si ritiri nel deserto!».
Il nostro testo attuale, da datare probabilmente al V secolo, è stato attribuito a sant’Agostino. È sotto il suo nome che figura nel Missale Gothicum: «Benedizione del cero del beato Agostino, vescovo, che compose e cantò quando era ancora diacono». Certamente la teologia agostiniana ne ispira il tenore essenziale: l’universo della Redenzione è migliore di quello che era nello stato dell’innocenza. «O certe necessarium Adæ peccatum!» («Davvero era necessario il peccato di Adamo»).
Dal punto di vista musicale, la difficoltà consisteva nel trovare un supporto melodico per questa lunga effusione debordante di lirismo, dove si mescolano figure e simboli biblici frammisti a esclamazioni. Il recitativo di base fu preso a prestito dal tono solenne del prefazio. La riuscita consisteva nel dare ai vocalismi tutta la loro ampiezza senza infrangere l’unità della linea melodica. Bisognava permettere l’audacia proveniente dal libero giubilo dell’anima rispettando altresì la sobrietà dello stile romano. Il risultato è un equilibrato capolavoro di esattezza e pienezza.
Non possiamo fare un commento metodico di ogni frase del Præconium paschale, perché non si spiega il mistero, non si spiega la poesia; anche perché le grandi affermazioni della teologia scolastica sono di una tale esattezza e densità che la glossa dei commentatori non porta nessuna altra luce. Ma possiamo sottolineare una parola, una frase, suggerire una pista per la meditazione.
La prima parola, Exultet, dà il tono a tutto il brano. È la forma ottativa del verbo esultare: «Esulti», che ha come radice saltus, il salto. Ma sappiamo bene cosa significhi esultare? La Chiesa, lei, lo sa. Maria di Nazaret lo sa. Sapevano esultare i santi rapiti in estasi, i santi attraversati da una prova, che sovrabbondavano di gioia, come san Paolo in mezzo alle tribolazioni. Esultare è gioire non a causa del bene che si trova in sé stessi, ma a causa del bene che risiede nell’anima. La gioia della Sposa mistica del Cristo è una gioia che non è della terra, ci attira verso l’alto, attira il cuore dei fanciulli e li fissa fuori di essi, fuori delle fluttuazioni del tempo: là in alto, nel solido cielo, dove sono le vere gioie, «ubi vera sunt gaudia», come si dice in una splendida colletta.
La santa liturgia è una scuola di ammirazione e di gioia. Quando ci dice «sursum corda», ci insegna non l’introspezione ma l’estasi. Il Præconium paschale non è che un lungo trasporto dell’anima in estasi davanti al mistero della sua liberazione.

Exultet iam angelica turba cælorum
Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste

La vita cristiana si svolge in presenza degli angeli. Sono sulle prime logge del Theatrum mundi; è normale che siano i primi a rallegrarsi a causa della gloria che si effonde sulla santa umanità del Cristo risuscitato e del bene che ne ricevono la vita della Chiesa e la vita delle anime di cui sono custodi.

Gaudeat et tellus tantis irradiata fulgoribus
Gioisca la terra inondata da così grande splendore

Tellus era il nome di un’antica divinità italica personificante la terra che nutre, o Terra madre, come la chiamavano i Romani. Che gioisca, dunque, anch’essa, soprattutto perché ha bevuto un tempo il sangue di Abele, giacché fu nel corso delle epoche testimone di tanti crimini, in quanto ha assorbito i fiotti del Sangue redentore. Che gioisca anch’essa, la vecchia terra («et tellus»), irradiata da una luce che la rinnova e la penetra sino in fondo e completamente! È il primo abbozzo della sua trasfigurazione a venire.

Hæc nox est
Questa è la notte

Con l’aiuto di una breve formula d’introduzione (un dimostrativo o un’esclamazione), undici volte nel corso dell’Exultet, sarà evocata la notte, ricordando le opere di Dio che, sotto l’antica alleanza, sono state realizzate nella profezia della notte di Pasqua (ricordo della fuga in Egitto, della colonna di luce che guidava gli Israeliti), o designando la stessa notte santa che fu testimone del mistero. Il verso è allora sottolineato da un’esclamazione ammirata di tenerezza: «O vere beata nox, quæ sola meruit scire tempus et horam, in qua Christus ab inferis resurrexit» («O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi!»).
Questo incanto della notte ripreso con insistenza è molto più di un piacevole procedimento letterario. È una proposizione cattolica fondamentale per affermare che la creazione è non un quadro inerte, ma un’esecutrice attiva e scelta dei disegni di Dio. Osservate l’uso che la Chiesa fa delle cose create nei suoi sacramenti e nella liturgia: l’acqua, il pane, il sale, il vino e l’olio, la pietra, l’oro e l’argento, la seta e la luce. Guardate anche come Dio si serva degli elementi per manifestare la sua presenza nella Bibbia: il vento, il tuono e i lampi, i terremoti, i sogni notturni. La Bibbia è un immenso poema cosmico e la tradizione liturgica non ha fatto che ereditare questa potente ispirazione quando ci parla della notte, non più come espressione del caos iniziale, ma come una complice dei disegni di Dio e una collaboratrice amichevole della sua Provvidenza.
Le grandi esclamazioni: «O immensità del tuo amore per noi!».
C’è un modo didattico e un modo incantatorio; c’è uno sviluppo metodico nell’esposizione tanto antica quanto lo spirito dell’uomo: definire, classificare, ordinare. E poi c’è il canto. La Chiesa assume questi due ordini con il catechismo e la liturgia. Non ci si pensa mai abbastanza: attraverso il canto, la Chiesa propone ai suoi figli un metodo di conoscenza superiore, che infonde nell’anima la conoscenza e l’amore insieme.
Al centro del brano, quattro grandi esclamazioni precedute dal vocativo «O» formano, attraverso la potenza e l’audacia della proposizione teologica, un apice luminoso che – riflettiamoci – supera ogni commento. È sufficiente citarle, osservando semplicemente che la melodia dolce e decisa si sposa meravigliosamente con il testo:

O mira circa nos tuæ pietatis dignatio!
O immensità del tuo amore per noi!

O inæstimabilis dilectio caritatis: ut servum redimeres, Filium tradidisti!
O inestimabile segno di bontà: per riscattare lo schiavo, hai sacrificato il tuo Figlio!

O certe necessarium Adæ peccatum, quod Christi morte delectum est!
Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato distrutto con la morte del Cristo!

O felix culpa, quæ talem ac tantum meruit habere Redemptorem!
Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!

Per certo, ogni mente mediamente colta riconoscerà nel brano l’espressione «Felix culpa»«felice colpa» –, generalmente indebolita e distorta nel suo significato. Sono le Confessioni di sant’Agostino che danno la chiave di lettura di questa parola misteriosa. Quando il santo dottore esprime il suo dolore davanti alla malizia del peccato che esercitò su di lui tanta attrattiva, esprime la sua ammirazione di fronte all’eccesso della misericordia divina svincolata dalla miseria stessa che si appresta a guarire, e che si propone di restaurare, nel modo più sublime che le sia permesso, lo stato d’innocenza.
Questo principio si applica allora in maniera eminente al peccato di Adamo, senza il quale non si sarebbe manifestato un aspetto del mistero d’amore e di generosità infinita di Dio. Attraverso le grandi acclamazioni dell’Exultet, la Chiesa ci fa passare dalle lacrime della penitenza alla contemplazione ammirata del mistero della Redenzione.
Poi il diacono riprende l’elogio interrotto della notte pasquale:

Hæc nox est…

«Di questa notte è stato scritto: la notte splenderà come il giorno, e sarà fonte di luce per la mia delizia. Il santo mistero di questa notte sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l'innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti. Dissipa l’odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace».

Come non rilevare la discreta allusione nel testo, quando descrive la materia di cui il cero è fatto:

Alitur enim liquantibus ceris, quas in substantiam pretiosæ huius lampadis apis mater eduxit
[Un fuoco ardente] si accresce nel consumarsi della cera che l’ape madre ha prodotto per alimentare questa preziosa lampada.

Si trova qui, nella maggior parte degli antichi manoscritti, un lungo sviluppo sul ruolo della casta ape della quale il compositore svolge con finezza l’elogio, paragonandola alla verginità feconda della santa Vergine, e che si conclude così:

O vere beata et mirabilis apis, cuius nec sexum masculi violant, nec filii destruunt castitatem, sicut sancta concepit Maria, virgo peperit et virgo permansit
O ape veramente felice e mirabile, la cui verginità non è stata mai violata e che è feconda restando casta, così come Maria che, santa tra tutte le creature, vergine concepì, vergine partorì, vergine rimase

I simboli e le figure dell’Antico Testamento, commoventi nella loro penombra annunciatrice, sono nuovamente evocati: O vere beata nox… O notte beata che hai spogliato gli Egiziani e arricchito gli Ebrei! E a questo mirabile brano segue:

O vere beata nox, in qua terrenis cælestia, humanis divina iunguntur
O notte veramente gloriosa, nella quale le cose del cielo si congiungono a quelle della terra, le cose divine a quelle umane

Fermiamoci.
Se abbiamo tradotto con pesantezza, materialmente, ripetendo la parola «cose», è perché i neutri plurali in latino sono carichi di senso; con la loro estrema concisione, enunciano un mistero: l’opera stessa della Redenzione è elevare l’uomo riscattato al rango di creatura angelica, per renderlo partecipe della natura divina, «divinæ consortes naturæ», come scrisse san Pietro nella sua seconda lettera. «Non siete più ospiti e pellegrini – ci dice san Paolo – ma concittadini dei santi e ospiti della casa di Dio!»; che prospettiva grandiosa sul mistero del nostro destino soprannaturale!
Elaboriamo dunque interiormente per meglio assaporare: «humanis divina iunguntur», unione del divino con l’umano. Le frontiere del visibile e dell’invisibile si dissipano con la grazia della liturgia celeste, meravigliosa dote che lo Sposo lascia alla sua Chiesa prima di riguadagnare il cielo. Il ciclo dell’anno liturgico è l’anello nuziale che ha un prezzo inestimabile col quale si riconosce alla Chiesa la dignità di sposa. Disgrazia a chi osa toccarlo.
Il Præconium paschale si conclude con un parallelismo sul cero inciso, intarsiato di grani d’incenso e posto in mezzo al coro della chiesa, immagine del Cristo risuscitato, e la stella del mattino che annuncia il giorno:

Flammas eius lucifer matutinis inveniat
Lo trovi acceso la stella del mattino

Ille, inquam, lucifer, qui nescit occasum
Quell’astro, intendo, portatore di luce e che non conosce tramonto

Ille, qui regressus ab inferis, humano generi serenus illuxit
Che risuscitato dai morti fa risplendere sugli uomini la sua luce serena.

Segue una formula deprecativa in favore del clero, del popolo dei fedeli, del Papa e del vescovo, con la clausola finale Per eundem Dominum nostrum Iesum Christum Filium tuum… cantata con voce forte, maestosa, allargando un po’ il ritmo, alla quale risponde l’Amen dell’assemblea.
Il diacono tace, senza fiato, certamente per il lungo recitativo declamato con voce alta e virile; il cuore batte forte, se è il suo primo Præconium, ma interiormente illuminato dalle sublimi parole che sono salite alle sue labbra. Depone gli ornamenti bianchi e riprende la stola violacea. Sul pulpito, il libro delle profezie è aperto e ascoltiamo sotto una nuova luce il lettore evocare le prime età del mondo.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), L’Exsultet, in Itinéraires, n. 232, aprile 1979, pp. 125-134, poi in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome I, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2009, pp. 102-112, trad. it. delle monache benedettine del Monastero San Benedetto di Bergamo]

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martedì 19 aprile 2011

Il Figlio dell’Uomo si addormentò per far nascere la Chiesa

[Il 17 novembre 2010 Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, si è recato in visita al seminario dell’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote, presso Gricigliano (Firenze), in occasione del ventennale della visita di Dom Gérard Calvet (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero di Le Barroux. Nel corso della visita l’abate benedettino ha celebrato una Messa pontificale, durante la quale ha pronunciato la seguente omelia, che trascriviamo – con l’autorizzazione dell’Istituto Cristo Re Sommo Sacerdote, al quale rivolgiamo il nostro ringraziamento – in traduzione italiana a cura di don Federico M. Pozza ICRSS, al quale pure vada il nostro ringraziamento. L’originale francese dell’omelia, assieme al servizio fotografico della giornata, si trova nel sito in lingua francese dell’Istituto]



Monsignore,
Signori Canonici, cari seminaristi, care Suore,

Sono quasi tre anni che Dom Gérard ci ha lasciato. Come avete evidenziato sulla bella immagine-ricordo da voi stampata, Benedetto XVI salutò colui la cui «vita è stata interamente rivolta al Signore». Lo fu veramente; egli toccava la terra solo per saltare verso il cielo. André Charlier disse di lui pressappoco la stessa cosa, ammirando sin dalla sua giovane età la capacità che aveva di andare sempre all’essenziale. Ma Dom Gérard non dimenticava i mezzi ordinari coi quali si va a Dio e che ci sono stati trasmessi dalla Tradizione e dai nostri Padri.
Lei mi ha invitato, Monsignore, per onorare la visita di Dom Gérard, vent’anni fa, quando l’Istituto muoveva i suoi primi passi. Sembra che a quell’epoca voi abbiate avuto tutta una serie – assai strana – di difficoltà di ogni tipo, e che per questo lei domandò a Dom Gérard di benedire questi luoghi, cosa ch’egli fece. La grazia di Dio, attraverso il sacramentale, fu efficace. E poiché Dom Gérard sapeva – secondo l’espressione di Charles Péguy – che il fiume della vita spirituale scorre nel letto della vita naturale, non dimenticò di farle dono di un materiale che all’epoca vi mancava implacabilmente: dei letti. Cosa prosaica, certo, ma indispensabile alla natura e trattata in modo molto preciso dalla santa Regola di san Benedetto.
Mi permetta di fare come Dom Gérard, di saltare sul materasso per evocare ciò che era al centro del suo pensiero e della sua sollecitudine: la vita interiore. La vita interiore trova nel sonno come un’icona.

È vero che vi è un sonno cattivo che ci minaccia tutti.
La vita interiore non ha nulla a che vedere con il sonno di Oloferne. Questo non è che una conseguenza grossolana dell’intemperanza. La vita interiore non può scaturire dalle orge carnali o spirituali. Dom Gérard ci ha sempre messo in guardia contro l’avidità moderna per le novità, servite da pseudo-teologi e altri archeologi della vita cristiana. Sappiamo quel che capitò a Oloferne: una testa tagliata; sappiamo quel che capita all’Occidente: un’apostasia silenziosa.
La vita interiore non ha neppure nulla a che vedere con la fuga dalle responsabilità stigmatizzata dal profeta Isaia: «I suoi guardiani sono tutti ciechi […]; sonnecchiano accovacciati, amano appisolarsi» (Is 56,10). Dom Gérard seppe ricordare in modo audace il loro dovere a questi «guardiani».
La vita interiore, infine, non ha nulla a che vedere con il sonno di Pietro, Giacomo e Giovanni al Getsemani, avvolto dalla tristezza e sconfitto da una forma di disperazione. La fondazione di Bédoin non fu un atto disperato, ma al contrario un grande atto di speranza.

Esiste però un altro sonno, questa volta buono, che dà una dolce e profonda luce alla vita interiore.
Il sonno di Adamo, anzitutto, mandato da Yahvé per creare Eva. La vita interiore è una vita in cui il primato della grazia assume tutta la propria ampiezza. È Dio che agisce e non l’uomo. Quando Dio vuole fare delle meraviglie in un’anima, lo fa nel silenzio, nella calma, all’interno. L’anima deve farsi allora completamente docile, malleabile, in ascolto. Si abbandona pienamente nelle mani di Dio. È ciò che successe sulla Croce, in modo ancor più ammirevole. Il Figlio dell’Uomo si addormentò per far nascere la Chiesa.
Il sonno di Samuele, che dormiva nel Tempio. La vita interiore è piena intimità con Dio, quasi familiare. L’anima che abita con Dio e Dio che dimora nell’anima. Ma Dom Gérard avrebbe visto in questo sonno la vita interiore nutrita dalla grande liturgia della Chiesa. Egli amava questa maestra di preghiera che è la liturgia, la quale attraverso i suoi gesti solenni, sacri, immutabili, pieni del senso di Dio e degli uomini, poco a poco conferisce agli uomini come una seconda natura.
Il sonno di Giacobbe che prende una pietra e la mette sotto la propria testa per dormire. E Dio gli dice: «A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei coricato» (Gen 28,13). La vita interiore noi la riceviamo da Dio. Non ce la fabbrichiamo da noi stessi, come non si fabbricano né la fede, né la liturgia.
Infine, il sonno di Giuseppe, sposo di Maria, sublime icona della vita interiore, fatta di ascolto semplice e raccolto della Parola di Dio in una fede semplicissima, completamente pura. Messo a confronto con Zaccaria – che dubita della parola dell’angelo che gli parla nel Tempio santo, al vertice della città santa, attorniato dal popolo in preghiera – la fede di Giuseppe, in piena inazione, sperduto in un piccolo villaggio sconosciuto, solo nella sua casa troglodita, è un modello per tutti coloro che vogliono entrare veramente nella vita interiore.

Ma la vita interiore, lo ripeto, non può essere né sarà mai una fuga dalla realtà, bensì una potente fonte d’ispirazione e di missione.
Come il sonno di Sansone, che dormì fino al cuore della notte per svegliarsi e presi i cardini delle porte della città li divelse. La vita interiore, quando è autentica, nasce per combattere per Cristo e per la sua Chiesa.
La vita interiore è fonte di forza, di stabilità e di calma, come quando Nostro Signore dormiva nella barca scossa dalla tempesta. Dom Gérard era ammirevole per calma e serenità, soprattutto nella tempesta; nonostante le grandi prove che non mancarono mai, si svegliava ogni mattina come nuovo e pronto ad affrontare tutti i combattimenti.
Il salmo 149, che cantiamo ogni mattina alle Lodi, parla dei santi che si rallegrano nei loro letti. Versetto stupefacente. È la gioia del santo che ha accolto la grazia di Dio in una vita di fede, di preghiera, di raccoglimento e di meditazione, che canta la gloria di Dio – «exaltationes Dei in gutture eorum» («le lodi di Dio sulla loro bocca», Sal 149,6) – e si rallegra intimamente perché sa che Dio lo manda presso le nazioni e che Dio veglia su di lui «ad faciendam vindictam in nationibus» («per compiere la vendetta fra le nazioni», Sal 149,7). Si rallegra perché la vita interiore è un focolare ardente di carità cristiana.

Resta un ultimo sonno di cui devo parlare. Quello del riposo delle anime.
«Requiem aeternam dona eis Domine». La vita cristiana è una quiete, una pienezza, un godimento di Dio, una partecipazione, sin da quaggiù, alla pienezza della vita trinitaria, alla quiete di Dio.
Rivedo ancora Dom Gérard tornare tranquillamente dal Mattutino, tutto perso in Dio, con questa specie di ebbrezza dello Spirito di cui parla sant’Ambrogio, mentre assaporava la presenza di Dio. È qualcosa che faceva veramente venire voglia di seguirlo.



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domenica 17 aprile 2011

Catechesi pacomiana sulla Settimana Santa

Apa Pacomio, l'archimandrita di Tabennesi: sui sei giorni della santa Pasqua.

1. Lottiamo, miei cari, in questi sei giorni di Pasqua, perché ci vengono dati ogni anno in vista della redenzione delle nostre anime affinché in essi compiamo le opere di Dio. In sei giorni, infatti, da principio, furono creati il cielo e la terra e Dio lavorò la sua creazione fino a che fu compiuta, e il settimo giorno si riposò da tutte le sue opere (cf. Gen 2,2).

2. Questi giorni Dio li ha creati perché anche noi, ciascuno secondo il suo stato di vita, lavoriamo in questi sei giorni alle opere di Dio: silenzio (cf. 2Ts 3,12), lavoro manuale, preghiere numerose (cf. 1Ts 5,17), custodia della bocca (cf. Sal 38,2), purezza del corpo e cuore santo (cf. 1Cor 7,34), ciascuno secondo la sua opera. E anche noi, dunque, riposiamoci il settimo giorno e festeggiamo la domenica della santa resurrezione provvedendo con ogni sollecitudine alle sante preghiere comuni e benedicendo il Padre dell'universo che ha avuto misericordia di noi. Egli ci ha invitato il grande Pastore delle pecore disperse (cf. Eb 13,20) per radunarci nel suo santo gregge (cf. Ez 24,5; Gv 10,14).

3. Non scoraggiamoci affatto in questi santi giorni, ma chi si dà al digiuno con gioia, in silenzio, saggezza e grande pace, chi si astiene da cibi ricercati, chi si è allontanato dai vani piaceri, chi pratica prostrazioni e preghiere incessanti, chi si impone rinunce al sonno e veglie numerose, ciascuno insomma vigili sulla sua perseveranza perché ci accada quanto sta scritto negli Atti: alcuni su tavole, altri su rottami della nave e così tutti giunsero salvi alla riva (At 27,44).

4. Siano in lutto cielo e terra (cf. Ger 4,28) durante questi sei giorni di Pasqua! Quando colui che si è assiso nei cieli alla destra del Padre suo (cf. Mt 26,64; At 7,55) ci mostra benevolenza, l'imperatore deponga il diadema che porta e la corona imperiale in segno di lutto, poiché per la testa del re della pace fu preparata una corona di spine colma di punte acuminate (cf. Mt 27,29). I ricchi depongano i loro abiti multicolori, le vesti di porpora violetta e scarlatta (cf. Ger 10,9), perché il Signore fu spogliato delle sue vesti e i soldati le tirarono a sorte (cf. Mt 27,35). Chi mangia, beve e si diverte in questo mondo, sia sobrio in questi giorni di sofferenza, perché il Signore della vita stette in mezzo a coloro che lo maltrattavano a causa dei nostri peccati (cf. Is 53,5). Chi pratica l'ascesi si affatichi ancor di più nel suo regime di vita fino ad astenersi dal bere acqua, che è la gioia dei cani, perché appeso alla croce egli chiese un po' d'acqua e gli fu dato da bere aceto mescolato a fiele (cf. Mt 27,34). Le donne ricche depongano i loro ornamenti in questi giorni di dolore, colmi di lutto, perché il re della gloria, in vesti ignobili, stava... [la catechesi ci è giunta incompleta]

[San Pacomio, Catechesi sui sei giorni di Pasqua, in Placide Deseille - Enzo Bianchi, Pacomio e la vita comunitaria, Edizioni Qiqajon, Magnano (Biella) 1998, pp. 217-219]

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venerdì 15 aprile 2011

Una versione leggendaria dell’origine di Montecassino

Parecchi anni fa un vecchio monaco di Montecassino ci raccontava una versione popolare dell’origine di Montecassino. La gente diceva che San Benedetto faceva l’eremita a Monte Trocchio, quello che sbarra la vallata in direzione di Napoli. Il diavolo lo andava a tentare; egli abitava a Montecassino. Un giorno egli disse a Benedetto: tu stai qui nella miseria, in una grotta. Io invece mi sono fatto un bellissimo palazzo lassù. E Benedetto disse: me lo fai vedere? E il diavolo rispose: volentieri, però ad un patto; che tu non faccia mai il segno della croce. Andarono lassù e Benedetto ammirava tutto e lodava il lavoro. E il diavolo gongolava dalla gioia. Ma ad un certo punto Benedetto disse: però c’è una cosa che non va bene.

E il diavolo irritato disse: Non è possibile. Benedetto replicò: Abbi pazienza; vedi quella statua lassù è troppo in alto e si vede poco, (e gliela indicò) invece farebbe più bella figura se fosse qua sotto (e indicò il luogo). E quella finestra là a sinistra (e la mostrò) non è in simmetria con quella di destra (e stese la mano). Il diavolo fece un urlo: Benedetto aveva tracciato il segno della Croce e Cristo aveva preso possesso di Montecassino. Benedetto ci rimase padrone, e al diavolo non restò altro che fargli ogni tanto dei dispetti.

[Dom Bonifacio Borghini O.S.B. (1895-1986), S. Benedetto. Vita - Regola, Benedictina Editrice - Abbazia di S. Paolo, Roma 1997, pp. 26-27]

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lunedì 11 aprile 2011

Una regola di vita interiore / quarta parte

Confessione e comunione

Due atti sacramentali vi accompagnano durante tutta la vita: la confessione e la comunione. Per la confessione, ecco qualche indicazione: se possibile, siate fedeli a confessarvi dallo stesso sacerdote. Siate brevi nell’accusarvi e precisi nelle circostanze che hanno causato le colpe. Confessatevi con regolarità risvegliando nell’anima la contrizione e il fermo proposito. Non cercate di stabilire un dialogo. Con gli occhi della fede, scorgete nel sacerdote ciò che Dio ha compiuto in lui con l’ordinazione sacerdotale: un giudice, un medico e un padre. Giudice, perché riceve le vostre colpe e le giudica degne di assoluzione (non giudica l’anima, dove penetra solo lo sguardo di Dio). Medico perché vi dirà il modo per riparare agli sbagli commessi. Padre perché vi esorta con dolcezza al coraggio e alla fiducia.
Quanto alla comunione eucaristica, bisogna sapere che i frutti che ne derivano sono in diretta relazione con l’idea che ci si è fatti della Messa. L’ostia consacrata durante la Messa è Gesù Cristo in persona; ma non si dice mai abbastanza che il Signore Gesù è presente sull’altare come vittima di un sacrificio, e che è alla vittima che ci comunichiamo, nell’atto stesso della sua oblazione sacrificale: vedete quale esigenza questo supponga nella condotta della nostra vita quotidiana, nell’accettazione delle prove che attraversate e nello spirito di offerta che deve dominare su tutti i vostri stati d’animo.

La preghiera liturgica

Abbiate la più grande considerazione delle azioni che appartengono in proprio alla santa Chiesa: canti, segni, formule sacramentali, dove si esprimono non dei sentimenti umani individuali soggettivi, segnati dai tempi e dalle circostanze, ma il pensiero eterno di Dio.
Il più venerabile di questi monumenti della pietà cristiana è la Messa latina e gregoriana secondo l’antico rito. Abbiate sotto gli occhi una traduzione che vi permetta di coglierne tutta la ricchezza e cercate di conservarne la sostanza: vi attingerete qualcosa d’inesprimibile, superiore a qualsiasi parola umana.
Considerate il messale come fosse il manuale per eccellenza del cristiano. La disposizione dei testi approntata alla Santa Scrittura, come la offre la liturgia del giorno, dà alla lettura un valore superiore a questi stessi testi se li aveste scelti per vostra iniziativa: è la Chiesa che li presenta per i bisogni della vostra anima, è lei, questa «grande madre Chiesa ai ginocchi della quale ho imparato ogni cosa» (Claudel), che li inserisce nel ciclo dei misteri di Cristo. I testi e i riti sacri vi insegneranno inoltre la profonda riverenza che l’anima deve provare in presenza delle cose divine. Che si tratti dello svolgimento sontuoso di una Messa solenne o della più umile benedizione del rituale per un bambino malato, è la medesima grandezza d’ispirazione che traspare. È con questa attenzione e rispetto verso gli atti che provengono in proprio dalla Chiesa, che si forgia un’anima cattolica.

Gli intercessori

La regola della preghiera cristiana implica il ricorso all’intercessione dei santi, in particolare quella del nostro patrono di battesimo, dei santi protettori delle nazioni e degli angeli custodi. Bisogna mettere più in alto di tutti il Sacro Cuore, il nostro grande Amico, animato verso di noi da un amore infinito, al quale possiamo domandare tutto. Poi Maria mediatrice di grazie, che non separiamo mai da suo Figlio e che ci conduce a lui tramite un diritto cammino. Non dimentichiamo i santi angeli, quest’armata celeste così potente, sempre pronta a soccorrerci: «Tutto ciò che sembra vuoto è riempito dagli angeli di Dio, e non c’è nulla che non sia abitato dalla circolazione del loro ministero» (sant’Ilario). Non dimenticate la preghiera quotidiana al vostro angelo custode, questo fratello del Paradiso che veglia su ciascuno di noi fin dalla nostra nascita.
Infine non esitate a ricorrere a rappresentazioni della Vergine e dei santi, ricordandovi che nei primi tempi della Chiesa ci furono cristiani che accettarono di morire martiri per le sante immagini. Amiamo le immagini, non per restarvi fissati, ma per andare al di là di esse. Sono come i gradini di una scala: i piedi non salgono se non si lascia il sostegno sul quale si appoggiano. Le immagini, le statue, le icone sono le finestre del Cielo destinate, nel solco dell’Incarnazione del Verbo, ad attrarci attraverso le cose visibili nell’amore per le cose invisibili.

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), Une règle de vie intérieure, originariamente in Itinéraires, n. V (seconda serie), marzo 1991; poi, in versione aumentata, come pubblicazione a sé stante dal titolo Une règle de vie, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1994; da quest’ultima ripresa in Benedictus. Écrits Spirituels. Tome II, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2010, pp. 376-402 (da cui la presente traduzione; qui pp. 385-388), trad. it. delle monache del Monastero San Benedetto di Bergamo / 4 - continua]

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venerdì 8 aprile 2011

«Gli uccelli siamo noi, il ramo siete voi»

Il film Uomini di Dio ha ammirevolmente messo in luce la generosità della comunità di Tibhirine. Grazie all’eccezionale interpretazione degli attori – in particolare di Michael Lonsdale –, il coraggio dei monaci appare in tutte le sue dimensioni. Coraggio pieno di lucidità: sapevano quello che rischiavano. Coraggio pieno di carità: non rimanevano là che per servire. A padre Christian de Chergé, il quale dice a un abitante del villaggio che i monaci rimangono avvinghiati a Tibhirine come uccelli sul ramo, il buon uomo risponde pan per focaccia: «No, i monaci sono il ramo! Gli uccelli siamo noi, il ramo siete voi». Il villaggio doveva la sua stabilità al monastero.
Inoltre, come non ammirare le ricche virtù del priore di Notre-Dame de l’Atlas: sete d’assoluto, dono totale al prossimo, ascetismo, abnegazione nel lavoro, vasta scienza, agilità di spirito. E che coraggio! Quando, una notte di Natale, alcuni membri del GIA armati fino ai denti vennero a cercare padre Luc (medico) per curare dei feriti, il priore tenne loro testa e ottenne la loro partenza con la sola propria fermezza. Ancora, in taluni ambiti padre Christian non mancava di una grande chiaroveggenza. Per esempio, sapeva ben discernere la duplice minaccia che grava al giorno d’oggi sul mondo. Durante un congresso di padri abati e madri abbadesse cistercensi a Poyo, in Spagna, non ha forse parlato con lucidità della minacciosa invasione dell’ateismo e dell’islam?
Sia quel che sia di tutte queste belle qualità, non si può tuttavia seguire padre Christian in tutte le sue iniziative e ancor meno assumerlo come riferimento teologico per il dialogo interreligioso. È evidente che non era un teologo. Gli mancava per ciò la struttura filosofica necessaria a un pensiero coerente. La sua scrittura scorre bene. È inoltre animata da splendidi slanci poetici. Ma la poesia non è la teologia. I ragionamenti di padre de Chergé sono pieni di equivoci e di sofismi. A Poyo, per esempio, afferma che Gesù è il solo musulmano possibile. Altrove dice che il Corano è un’epifania del Verbo. Stabilisce un parallelo fra Corano e Vangelo fondandosi sull’etimologia: «Corano» deriva dalla radice «proclamare», e Giovanni Battista «proclama». Ecco una «prova» assai debole per assicurare che Gesù è «il Corano fatto carne»! Un’altra affermazione di padre de Chergé rischia di alimentare molteplici equivoci: l’islam sarebbe un’altra via per giungere al Dio unico. Affermazione pericolosa. Si è già a tal punto sicuri che abbiamo lo stesso Dio dei musulmani?
A tal proposito, qualche anno fa mi è capitata un’esperienza illuminante. Camminavo in una strada buia. Un uomo d’origine nord-africana stava uscendo dalla sua casa e mi vide. Mi gettò uno sguardo scuro e prese ad accompagnarmi, fissandomi dai sandali alla chierica. Volendo distendere l’atmosfera lo salutai con un «Buongiorno!». Mi rispose però energicamente: «Dio non procrea!». Faceva erroneamente allusione al mistero della Santa Trinità. Per lui, un cristiano non si distingueva dall’abito o dal taglio di capelli inconsueto, ma essenzialmente per la sua fede in Dio «Padre, Figlio e Spirito Santo». E considerava una tale affermazione come blasfema. La sua fede coranica l’obbligava a rifiutare che il Dio unico possa sussistere in tre persone; era una feroce negazione della mia fede cristiana su questo punto essenziale. Il Corano e il Vangelo gli apparivano contraddittori nel loro messaggio sull’identità di Dio. Riconoscendo in Dio un Figlio distinto dal Padre, introducevo un secondo Dio. Ero un politeista. Ho allora guardato l’uomo barbuto e gli ho detto che ero d’accordo con lui. Ne rimase turbato… «Sì, Dio non procrea. Genera. Non è la stessa cosa». L’ho lasciato con questa porta aperta sul mistero… Noi adoriamo un Dio che non è il Dio chiuso su sé stesso dell’islam. Il nostro Dio è un abisso di vita: eterna generazione nel seno del Padre di un Figlio in tutto simile a lui e spirazione dello Spirito Santo che procede dal Padre e dal Figlio.
La Quaresima incede. Viviamola in intima unione con Gesù, vero Figlio di Dio. E preghiamo il nostro Padre del Cielo di donarci con pienezza il suo Spirito di forza e d’amore, affinché ci protegga da ogni dhimmitudine intellettuale e affettiva. Un dialogo interreligioso condotto male può diventare polvere negli occhi e servire a ciò che lo stesso padre Christian de Chergé chiamava «l’invasione dell’islam». La messe è abbondante, ma il maestro manca di operai. Chiediamo con insistenza al Signore i ministri competenti di cui la Chiesa ha un grande bisogno: persone di coraggio e di cultura dotate di una solida struttura mentale e di un giudizio informato. Nella preghiera e nel digiuno, otteniamo infine dal Signore tutte le grazie di fortezza di cui hanno bisogno i nostri fratelli cristiani d’Oriente. Essi pagano spesso con la loro vita la fedeltà alla loro fede in Dio «Padre, Figlio e Spirito Santo».

[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, Le bon grain et l’ivraie, editoriale di Les amis du monastère, n. 137, marzo 2011, pp. 1-2, trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]


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giovedì 7 aprile 2011

Benedetto e Gregorio: le colonne della liturgia latina

Fin dai primissimi tempi la liturgia della Chiesa si espresse in due forme, tra loro connesse, in modo che l’una sia l’estensione e l’approfondimento dell’altra. Si tratta della liturgia ordinaria del popolo di Dio e, al suo interno, quella più specifica degli asceti e delle vergini. La prima celebra i divini misteri nel tessuto della vita di ogni giorno, seguendo i ritmi e le situazioni in cui si trova la comunità cristiana, l’altra prepara e prolunga nei tempi e approfondisce nei contenuti i misteri celebrati nella riunione domenicale e feriale, che tutti accomuna. Questa due modalità, che rispondono a specifiche sensibilità spirituali e a diversa disponibilità di tempo e di lavoro, convivono dentro la comunità cristiana e si intrecciano, come espressioni legittime e complementari della liturgia quotidiana e settimanale della Chiesa locale. In tal modo l’intera assemblea liturgia riceve permanentemente il beneficio e la testimonianza di una dedizione cultuale più intensa ed estesa, a contatto con la vita della comunità, che gli asceti offrivano a Dio per il bene e il progresso di tutti i fratelli nella fede. Essi, infatti, anticipavano nella lode e nella meditazione, la convocazione di tutto il popolo con i suoi pastori, e la estendevano poi in altre ore del giorno e della notte, impossibili a chi viveva nei normali ritmi giornalieri. Gli asceti e le vergini non vivevano quindi da estranei alla loro comunità cristiana, ma erano pienamente inseriti in essa e stavano in primo piano nella comune celebrazione dei divini Misteri, dai quali i fedeli laici attingevano la forza per il loro impegno secolare e gli asceti la luce per una vita spirituale più intensa e fervente.
Con l’avvento della libertà religiosa queste pratiche ulteriori, che nei primi secoli erano per lo più facoltative e fatte solo dai più zelanti, ricevono una più precisa organizzazione sia nei riti, come nelle persone che le assolvono e si avviano verso una forma sempre più istituzionalizzata. Questa situazione, più evoluta, è già evidente nella Chiesa di Gerusalemme del IV secolo, secondo il noto diario della pellegrina spagnola Egeria.
Ebbene, queste due diverse intensità nell’esercizio del culto sono all’origine della due fondamentali forme liturgiche, comuni in Oriente e in Occidente, designate oggi come: la liturgia cattedrale e la liturgia monastica. La prima scaturisce dal modulo tipico dei riti rivolti all’assemblea di tutto il popolo, la seconda deriva da quelle forme supplementari, consentite solo ad alcuni, gli asceti e le vergini. Un esempio di composizione di queste due forme lo si può individuare nella Liturgia delle Ore, dove, le Lodi, i Vespri e la Veglia domenicale, si ritengono appartenenti all’antico ufficio cattedrale, mentre le Ore minori diurne (Terza, Sesta, Nona, Compieta) e l’Ufficio notturno feriale si configurano come sviluppi successivi dell’Ufficiatura monastica.
In seguito, con la nascita e la crescente affermazione del monachesimo e soprattutto col passaggio dalla forma eremitica a quella cenobitica, la liturgia monastica tende a separarsi notevolmente dal seno della Chiesa locale e ad esprimersi sempre più in ambienti diversi e con forme proprie, più consone al carisma specificatamente contemplativo. Si giungerà così, nell’alto medioevo, alla realizzazione matura di quelli che saranno i due luoghi precipui della vita della Chiesa e dell’irradiazione evangelica: la città con la liturgia della sua cattedrale e il monastero con la liturgia abbaziale. Qui le due forme liturgiche potranno percorrere strade distinte in strutture rispettivamente più adatte e con un diverso tipo di assemblea liturgica: quella del popolo e quella dei monaci. Questa opportunità consentirà alle due forme – cattedrale e monastica – di raggiungere una maggiore identità e di esprimersi con una propria genialità, ma produrrà anche una più profonda divaricazione tra monaci e laici.
In questo quadro storico i due grandi, Benedetto e Gregorio, emergono quali personalità rappresentative delle due forme liturgiche: Benedetto è il simbolo della liturgia monastica, Gregorio è il simbolo della liturgia cattedrale.
In verità essi assurgono anche ad essere i paladini dell’intera vita ecclesiale dell’Occidente. Infatti, la loro persona è strettamente collegata alle due Regole, che essi hanno donato alla Chiesa. La Regola monastica di san Benedetto organizza il monachesimo occidentale e pone le basi costitutive delle abbazie; La Regola pastorale di san Gregorio Magno, imposta la pastorale occidentale e pone le basi della vita diocesana e dei suoi pastori.
La liturgia monastica, in primo luogo, privilegia il monito evangelico del pregare incessantemente (1Ts 5,17) e si impegna ad una assolvenza tendenzialmente piena dell’intero salterio e di un più ampio lezionario biblico. Ciò è reso possibile da un regime di vita consono alla contemplazione, diurna e notturna, e si può realizzare solo in ambienti adatti a questo scopo, col supporto di una comunità che condivida preghiera, lavoro e riposo. Gli Angeli che contemplano sempre il volto di Dio ne sono icona e la vita celeste ne è modello. L’intimità totale con Dio e l’olocausto della verginità, la fusione sinfonica nella comunità, unita all’abnegazione di se stessi, delineano il cuore del monaco e offrono il clima spirituale più idoneo per l’attuazione del canto corale e regolare delle lodi divine. Soprattutto dopo la fine della grandi persecuzioni si sentì l’esigenza di non rinunciare a quella radicalità evangelica che era caratteristica delle origini eroiche del cristianesimo e, di fronte all’inevitabile allentamento della preghiera in un popolo cristiano sempre più numeroso, ma con conversioni talvolta sommarie, si intese conservare la generosità degli inizi con una vigorosa proposta esistenziale, che tenesse vivo lo spirito della primitiva comunità cristiana. In tal senso la liturgia monastica, in tutte le sue variabili, costituisce un bacino di spiritualità irrinunciabile per la santità e l’elevazione qualitativa dell’intero popolo di Dio. San Benedetto è l’interprete insuperato della liturgia monastica occidentale e il suo carisma è descritto con rara eloquenza in uno dei responsori più belli dell’Ufficio Romano, che si canta proprio nella sua festa dell’11 luglio:
San Benedetto, lasciando la casa e l’eredità paterna per essere gradito a Dio, si consacrò interamente a lui nella vita monastica.
* Abitò solo con se stesso, sotto gli occhi di colui che vede tutto.
Si ritirò dal mondo, con l’ignoranza di chi sa troppo bene, e con la sapienza di chi non vuol sapere.
* Abitò solo con se stesso, sotto gli occhi di colui che vede tutto.
La liturgia cattedrale, invece, si cura prevalentemente di introdurre il popolo nei misteri e di disporlo a riceverne con frutto la grazia. Elevare il popolo alla liturgia e portare la liturgia al popolo è la preoccupazione del pastore. Il popolo nella sua globalità e nelle situazioni ordinarie di vita è il referente fondamentale di questa forma liturgica. E il genio specifico del pastore vigilante sta nel coniugare con equilibrio l’integrità del mistero con la sua trasmissione, senza ridurre o eliminare uno dei due termini. L’intento pastorale ricerca nella continuità della tradizione l’impiego migliore di formule, preci, simboli e riti verificando con responsabilità e competenza la loro abilità a comunicare quella grazia, che devono poter esprimere in modo adeguato. Per questo la liturgia cattedrale tende ad essere breve, incisiva, semplice, elastica. Essa segue il ritmo diversificato delle categorie comuni dei cristiani, che vivono nella società e sono impegnati nel lavoro quotidiano. Tuttavia non è priva di fascino, di sacralità e di solennità, come dimostra la liturgia della Chiesa Romana, che da sempre si esprime con riti brevi, lineari, nobili e solenni. È, infatti, la nobile semplicità (SC 34) il carisma di questa Chiesa con la quale tutte le Chiese devono concordare. E dalla nobiltà della forma romana spira un senso del sacro essenziale ed eccelso e, proprio per questo, incisivo nella pastorale. San Gregorio Magno è il modello della liturgia cattedrale romana. Egli, come risulta dal suo Sacramentario, ha fatto sintesi delle migliori tradizioni liturgiche precedenti e, da buon pastore, ha consegnato al suo popolo una liturgia capace di coinvolgerlo con efficacia nei misteri salvifici. La sua opera liturgica ebbe una tale diffusione e una così vasta recezione nella Chiesa latina da varcare i secoli, fino a giungere ai nostri tempi. Il suo genio pastorale lo raccomanda quale referente per ogni successiva riforma della liturgia, che, mediante uno sviluppo organico dell’ininterrotta Tradizione, immette nel popolo cristiano, che si diversifica nelle culture, quell’unica energia divina che non può mai essere corrotta. Anche Gregorio trova nel meraviglioso responsorio della sua memoria liturgica del 3 settembre, una mirabile sintesi dell’intera sua opera pastorale e in particolare del suo splendido genio liturgico:
Dalle profondità delle Scritture trasse norme di azione e contemplazione, e immise nella vita del popolo l’acqua viva del Vangelo.
* La sua voce continua a risuonare nella Chiesa.
Come aquila colse dall’alto il senso delle cose; con la forza della carità provvide agli umili e ai grandi.
* La sua voce continua a risuonare nella Chiesa.
Il mutuo legame tra le due forme liturgiche – cattedrale e monastica – è ancora assicurato da Gregorio e Benedetto. Infatti, Benedetto – monaco – assume come base liturgica per le sue comunità monastiche il rito dell’Urbe – sicut psallit Ecclesia Romana – e così salva la forma romana antica e classica e la trasmette ai posteri. Gregorio – vescovo – adatta alle esigenze del suo popolo la liturgia di sempre, ma sempre col cuore legato al monastero e con un continuo riferimento alla sua personale esperienza di monaco. In tal modo, né manca a Benedetto la comunione con la liturgia cattedrale, né manca a Gregorio la comunione con la liturgia monastica. Si ritorna così a quel nesso indissolubile delle origini, quando popolo e asceti, condividevano nell’unica Chiesa locale le due anime della liturgia. Un legame che mai dovrebbe essere perduto per l’edificazione dell’unico popolo di Dio. Benedetto e Gregorio, non solo affermano la legittimità e la ricchezza delle due forme liturgiche, ma al contempo ne proclamano l’unità indissolubile e il comune orientamento al servizio dell’unica Chiesa di Dio.

[Don Enrico Finotti, La centralità della Liturgia nella storia della salvezza. Le sorti dell’uomo e del mondo tra il primato della Liturgia e il suo crollo, Fede & Cultura, Verona 2010, pp. 96-100]

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