domenica 28 dicembre 2014

Un cammino di libertà - Commento alla Regola di san Benedetto

Dom Guillaume Jedrzejczak O.C.S.O., Un cammino di libertà. Commento alla Regola di san Benedetto, Lindau, Torino 2013, 552 pp. Recensione di M. Geltrude Arioli OSBap, in Ora et Labora, n. 2 / 2013.

Leggendo questo commento scorrevole eppure profondo si capisce subito che è espressione di una vita: una vita di paterna attenzione alla comunità che si intreccia con intelligenza d’amore con la vita di ogni singolo monaco e della comunità. Opportunamente p. Roberto Nardin presenta l’opera sottolineando l’apertura di orizzonti della spiritualità benedettina a tutti i battezzati in quanto tali. Il commento di dom Guillaume aiuta infatti a riconoscere la vita monastica come espressione piena e integra della spiritualità del Battesimo.
Non basta rilevare in questo lavoro la concretezza della esperienza di vita monastica nella duplice situazione – del monaco e del padre abate – . Ciò che colpisce di più è la verità e la profondità di certe esperienze mistiche che affiorano nel vissuto monastico. Quando l’Autore commenta il capitolo sull’obbedienza, sottolinea in modo convincente che l’obbedienza è un cammino guidato dallo Spirito Santo, un cammino di conformazione a Cristo: solo un’esperienza diretta e profondamente sofferta ha consentito all’Autore di descrivere la “notte” dell’abbandono totale del monaco, che, pur affidandosi completamente all’obbedienza senza la minima resistenza, vive nell’oscurità del Getsemani (p. 121). Il titolo del commento “cammino di libertà” è ampiamente giustificato dalla prospettiva in cui l’Autore, fedele interprete di San Benedetto, spiega il distacco dalla volontà propria e la profonda coscienza della propria fragilità che accompagna il cammino dell’umiltà con tutti i suoi aspetti dolorosi: è proprio l’esperienza personale, concreta, che suggerisce all’Autore di consigliare l’attenzione del monaco alla presenza del Salvatore, momento per momento, per raggiungere il traguardo della maturità, ma senza lasciarsi vincere dall’amarezza nell’accogliere le umiliazioni e rimanendo sereni di fronte alla consapevolezza che l’amore vero consiste nel “riconoscere che non so amare” (p. 189).
Spesso i capitoli della Regola dedicati alla liturgia sono un po’ trascurati dai commentatori, dato che l’ordo liturgico è mutato. Invece con acutezza e profondità vengono qui evidenziate le ricchezze spirituali di alcuni particolari, come il cantare l’alleluia o il fare uso di testi dall’Apocalisse. È evidente che l’Autore ha vissuto e vive la bellezza della vita monastica come “il grande salto nelle braccia di Dio” che consente di accogliere il suo dono di grazia, di vivere umilmente il combattimento quotidiano alimentando il desiderio e la ricerca del Signore. Fanno riflettere profondamente certe asserzioni: “la vita monastica, se è vissuta in profondità, finisce per risvegliare nel cuore del monaco un’infinita compassione, che non viene da lui, per tutta la creazione... Discernere ciò che ci anima veramente non è facile: siamo animati dalla nostra affettività o dalla nostra compassione? San Benedetto in questo cap. 51, offre al monaco un solo criterio: affidarsi... al proprio abate” (pp. 404-405). Leggere questo commentario, che scaturisce dalla contemplazione e dall’esperienza di vita aiuta veramente a cogliere le ricchezze spirituali della Regola anche nelle sue espressioni che parrebbero secondarie e a metterne in luce l’attualità e la sapienza evangelica come lievito non solo per l’ambito monastico, ma anche per chi vive nel mondo.

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mercoledì 24 dicembre 2014

Un dono natalizio: la Compieta monastica

"Si raccomanda che anche i laici recitino l'ufficio divino o con i sacerdoti, o riuniti tra loro, e anche da soli" (Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosantum Concilium, n. 100).
Con questa intenzione, e onde favorire un'adeguata scoperta della straordinaria ricchezza dell'Ufficio Divino, mettiamo a disposizione il testo della Compieta monastica (secondo le rubriche del Breviarium monasticum del 1963), in latino con traduzione italiana a fronte.
Il fascicolo contenente la Compieta monastica – che, lo ricordiamo, può essere ascoltato in diretta dall'abbazia benedettina di Le Barroux (ogni giorno alle ore 19:45)  è disponibile in formato pdf al seguente link, oppure tramite la finestra qui in basso.





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venerdì 5 dicembre 2014

La gioia in Rancé / ultima parte

[La prima parte qui; la seconda parte qui; la terza parte quila quarta parte qui]

La gioia nella morte

Infine questa gioia cristiana, il cui ingresso nella vita monastica – la “conversione” – ha segnato l’inizio [31], trova la sua fioritura in occasione dell’uscita da questa vita, che si apre sul cielo. Dopo avere descritto le angosce di coloro i quali l’esistenza non avrebbe giustificato affatto questa speranza e questa sicurezza, Rancé parla dello stato d’animo dei monaci come lui li concepisce:
“Per i veri solitari che sono a riguardo del mondo come se non fosse più, che non hanno alcun ruolo nelle cose passeggere, e che vivono unicamente nella fede e nell’attesa dei beni a venire, non soltanto non vedono nella fine della loro vita qualcosa che faccia loro la minima pena, ma trovano gioia e consolazione nella meditazione della morte… Ciò che affligge gli altri li consola, e questi uomini divini, sapendo che il battesimo li ha già separati dal secolo, sono felici che la morte porti a compimento di separarli per sempre” [32].
Come san Gregorio, e dopo uno sviluppo che ricorda da vicino alcune sue pagine [33], Rancé ama insistere sul contrasto fra l’attaccamento a ciò che passa e l’aspirazione verso il regno eterno, e conseguentemente fra il timore della morte, che causa angoscia, e il desiderio della morte, che dona la gioia. Il desiderio di morire, non ispirato da una morbida tristezza, ma dall’amore, impaziente “di essere con Cristo”, come diceva san Paolo, era stato spesso espresso dai rappresentanti della tradizione monastica [34]. Quando sviluppa questo medesimo tema, Rancé non è inferiore ai suoi maestri. Vedremo come anche su questo punto, l’ultima parola è data alla consolazione:
“Il pensiero della morte, fratelli, distrugge tutte queste distanze; l’autentico solitario, che lo porta vivamente nel suo spirito, ha davanti agli occhi senza fine l’Eternità di Dio. Poiché non se ne vede separato che per un istante, egli è in una continua attesa che Gesù Cristo lo chiami a sé e che gli piaccia associarlo alla compagnia dei suoi santi. Il suo Salvatore è l’oggetto unico di tutte le sue vedute e di tutti i suoi desideri: egli lo considera come la causa della felicità che è sul punto di gioire, pensa alla riconoscenza che gli deve per tutte le grazie che gli ha già fatto, e che è ancora pronto a fargli… Pensa agli angeli, a questi santi spiriti che circondano il suo trono. Aggiungiamo, fratelli miei, che egli pensa alla sua uscita da questo mondo, che secondo la speranza che Dio gli ha donato, dev’essere il momento della sua esaltazione e del suo trionfo…
“Lungi dal gettarlo nello sconforto né dal fare desistere la sua fiducia, tutti i segni che ha ricevuto della bontà di Gesù Cristo gli vengono in soccorso, lo sostengono e fortificano la sua speranza e la sua fede… E se i suoi pianti gli servono quale nutrimento i giorni e le notti, può così dire che il Signore fa – per sua misericordia – che il suo dolore e la sua amarezza divengano la sua consolazione e la sua gioia, Convertisti planctum meum in gaudium mihi [35]. Perché la sua anima, rinfrescata e purificata dall’abbondanza dei suoi pianti, non ha più che sentimenti e pensieri di pace, di riconoscenza e benedizione; piange in continuazione con trasporti violenti: Siete voi, Signore, che mi liberate dal furore e dalla rabbia dei miei nemici…
“Infine, una quinta utilità della meditazione della morte è che essa consola il religioso della lunghezza del suo esilio e dell’afflizione che provano tutti quelli che vivono con pietà in questa valle di lacrime” [36].

Conclusione. Il pericolo dei florilegi

Abbiamo letto solo degli estratti. Non bisogna affatto dissimulare che si potrebbero estrarre dal trattato De la sainteté et des devoirs de la vie monastique o da altri scritti di Rancé delle pagine che renderebbero un senso alquanto diverso. Vi è contraddizione fra tutti questi brani? Per nulla: si devono completare. Sarebbe caricare un solo lato della bilancia e fare una “caricatura”, il trattenere solo le frasi che spingono al timore di Dio e all’austerità. Sarebbe deformare una dottrina, semplificandola. Perché queste frasi non si possono comprendere che nel loro contesto, e di questo fanno parte i testi che abbiamo riprodotto. Non abbiamo il diritto di cedere all’ammirazione, davanti a queste testimonianze piene di linfa tradizionale [37]? Il proposito del presente saggio non era che di contribuire a ristabilire l’equilibrio e a preparare un giusto apprezzamento.
Sapere leggere consiste nel leggere tutto, a non essere affatto soddisfatti di “brani scelti” – scelti in vista di dimostrare una tesi, quale che sia. Sapere leggere consiste ugualmente a non perdere di vista i procedimenti propri dell’espressione di ogni tempo: un san Girolamo non può essere compreso, le sue violenze non possono essere esattamente giudicate, che alla luce della retorica del secolo V, come pure un san Bernardo in rapporto a quella del secolo XII. Rancé, senza dubbio, si sentiva segretamente affine al pensiero dell’abate di Clairvaux, di cui diceva ai suoi religiosi: “San Bernardo, che da solo deve avere presso di voi più autorità di chiunque altro…” [38]; e del quale scriveva ancora: “Quest’uomo così moderato e così giusto nei suoi sentimenti…” [39]. Se si vuole rimanere equi, non ci si può avvicinare a Rancé senza avere letto diversi suoi contemporanei, senza conoscere la tradizione, e se queste condizioni non sono realizzate, meglio sarebbe tacere che parlare.

[31] Cfr. cap. XIV, q. 2, t. I, p. 569: “Ecco cosa deve un peccatore al timore di Dio, e come le sue prime consolazioni gli provengano e siano degli effetti della vista dei suoi giudizi”.
[32] Cap. XIII, q. 1, t. I, pp. 532-533.
[33] Ibid., q. 2, p. 548.
[34] Cfr., per esempio, il testo che ho citato in L’amour des lettre set le désir de Dieu, cit., p. 65, e gli Ecrits spirituels d’Elmer de Cantorbéry che ho commentato in Analecta monastica, II, Roma (Studia Anselmiana) 1953, pp. 56-57.
[35] Sal 29, 12.
[36] Cap. XIII, q. 2, t. I, pp. 549-553.
[37] I testi sul timore e il senso di peccato appartengono alla tradizione. Si troverà in Rancé una formula così forte come quella che si legge nella Regola di san Benedetto (7, 64): “reum se omni hora de peccatis suis æstimans, iam se tremendo iudicio repræsentari æstimet”?
[38] Cap. XXIII, q. 7, t. II, p. 685.
[39] Ibid., p. 686.

[Dom Jean Leclercq O.S.B., La joie dans Rancé, Collectanea Ordinis Cisterciensium Reformatorum, 25 (1963), pp. 206-215 (qui pp. 213-215), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. / 5 - fine]

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sabato 29 novembre 2014

Ordo Divini Officii 2015

Domenica 30 novembre 2014 inizia il Tempo dell’Avvento ed entra così in vigore il nuovo calendario liturgico. Per quanti desiderano recitare l’Ufficio monastico – che, lo ricordiamo, può essere ascoltato in diretta  e seguire il calendario liturgico dell’abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux, è ora disponibile online in formato pdf l'Ordo 2015 (il cui link permanente rimane durante l'anno anche nel menu "Liturgica" del blog Romualdica).



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giovedì 27 novembre 2014

Le disposizioni fondamentali dell’ascolto - San Benedetto per tutti / 1

San Benedetto per tutti… «Ma veramente per tutti»? Sì! Ma a una condizione da parte nostra, quella di volere davvero imparare ad ascoltare. È qui che inizia la difficoltà! Perché, monaco o meno, sapere ascoltare è un’arte molto delicata, ne converrete! San Benedetto, sapendo che l’ascolto è il grande tema della vita spirituale, ce ne parla sin dall’inizio del prologo della Regola. Chiediamo dunque a lui le chiavi di quest’arte delicata. Ecco cosa ci dice: «Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica…». In questo breve brano troviamo tre chiavi fondamentali per insegnare a chiunque l’arte di ascoltare, e in fondo l’arte di diventare discepoli. Vediamole:
1 - «Apri docilmente il tuo cuore». Per ascoltare veramente, bisogna metterci il cuore. Tutti gli innamorati, gli amici, i familiari, i superiori, lo sanno. Solo l’orecchio del cuore può creare in noi l’attenzione e la disponibilità richieste per tenere pronta la nostra anima a ricevere adeguatamente una parola.
2 - «Accogli volentieri». Volere essere discepoli è la prima condizione per potere profittare dell’insegnamento di un maestro. Colui che non ha sete di essere aiutato, illuminato e guidato, non potrà mai esserlo.
3 - «Mettili in pratica». Fare passare nella vita l’insegnamento ricevuto è uno dei grandi mezzi per poterlo penetrare ancora di più.
Volete provare? Leggete e ascoltate con queste medesime disposizioni i capitoli 2, 64 e 72 della Regola, applicandoli alla vostra situazione personale. Allora potrete constatare che la parola di san Benedetto è davvero per tutti, anche oggi!


[Fr. Ambroise O.S.B., "Saint-Benoît pour tous...", La lettre aux amis, del Monastero Sainte-Marie de la Garde, n. 18, novembre 2014, pp. 2-3, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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giovedì 20 novembre 2014

L'esercizio eroico della virtù di venerazione

[Grazie alla cortese autorizzazione di Yves Chiron, riproduciamo l'ultima sezione del suo articolo “Les juges du Pape François”, in Aletheia. Lettre d'informations religieuses, anno XV, n. 223, 9 novembre 2014, pp. 1-4 (p. 4), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B. (per informazioni e abbonamenti ad Aletheia: Yves Chiron, 10 rue Racine, 85000, La Roche-sur-Yon, France)]

Circa mezzo secolo fa, la Chiesa attraversava – in Francia e in altri Paesi – una grave crisi. A quell’epoca mons. Lefebvre non aveva ancora creato la Fraternità Sacerdotale San Pio X né il seminario di Écône. Alcuni laici cattolici erano in prima linea, attraverso le pubblicazioni che dirigevano, per difendere la Chiesa, la fede, il catechismo. Taluni potevano essere tentati da una rimessa in causa radicale dell’autorità del Papa. L’entrata in vigore della Messa detta di Paolo VI andò a dividere ancora di più i cattolici francesi.
Un intervento, assai poco conosciuto, è stato importante per impedire le derive, le tentazioni sedevacantiste (il termine cominciava appena a circolare) o le tentazioni scismatiche.
Il 26 novembre 1969, in un appartamento privato di Versalilles, Dom Jean Roy, Padre Abate di Fontgombault, riunì discretamente diversi responsabili laici di pubblicazioni cattoliche. Erano presenti Pierre Lemaire, direttore della rivista mensile Défense du Foyer e delle edizioni Saint-Michel, Jean Madiran, direttore della rivista mensile Itinéraires, Marcel Clément, direttore del quindicinale L’Homme nouveau, e altri ancora.
Dopo una cena in cui gli uni e gli altri poterono scambiare e confrontare le proprie opinioni, Dom Jean Roy prese la parola per dare a tutti dei consigli e delle raccomandazioni. Egli era in relazione con ciascuno di loro da molti anni, anche se non aveva alcuna autorità formale nei loro confronti. Nella sua allocuzione, lungamente preparata, egli rilasciò una specie di trattato d’azione per i pubblicisti cattolici in tempo di crisi (la conferenza, dattilografata, non è mai stata pubblicata né diffusa, malgrado l’accordo che Dom Jean Roy aveva dato a uno dei partecipanti).
Egli disse loro che «la prima, e in un certo senso l’unica, legge della vostra attività nella Chiesa e per la Chiesa» dev’essere «il vigore sempre crescente della vostra vita soprannaturale alimentata da tutti i mezzi propri a sviluppare la carità, una carità che trionferà su tutte le difficoltà che incontrerete nel vostro compito».
Il Padre Abate di Fontgombault raccomandava a questi responsabili di pubblicazioni cattoliche di conservare «l’amore e il culto della verità», la «rettitudine dottrinale» e la «rettitudine storica».
La sua lunga allocuzione si concentrò inoltre sull’attitudine dei pubblicisti cristiani di fronte al Papa. Le raccomandazioni che faceva erano fondate su una profonda teologia della Chiesa ed erano ispirate da una visione soprannaturale della situazione presente:
«Certo, anche quando si tratta del Papa, non abbiamo il diritto di chiamare il male bene, l’errore verità. Se il Papa ci dicesse di fare qualcosa d’intrinsecamente malvagio, non sarebbe il caso di obbedirgli, perché l’autorità non esiste che al fine del bene. Talora è legittimo e persino obbligatorio di mettere a parte l’autorità, anche sovrana, dei propri dubbi, delle proprie difficoltà, di fare da contrappeso al suo cospetto, con i giusti mezzi, a delle pressioni indegne».
«Tutto questo detto, occorre certamente riconoscere che molto spesso noi non abbiamo le informazioni sufficienti per giudicare adeguatamente, non dico delle intenzioni e del cuore del Papa – di cui solo Dio è giudice –, ma della sua condotta esteriore, poiché egli vede le cose da più in alto che noi».
«E poi, se abbiamo la certezza pratica che egli si sbagli, noi dobbiamo ciò nonostante esercitare la fede nella funzione del Papa e l’obbedienza ai suoi ordini, la venerazione filiale nei confronti della sua persona. […] certi giorni può accadere che occorra molta umiltà e molta carità, una buona dose di coraggio e della grandezza d’animo, per essere di fronte al Santo Padre ciò che si deve essere. Ricordiamoci allora dell’esempio dei santi, e ricordiamoci che fra i doni dello Spirito Santo vi è il dono di pietà, mediante il quale Dio ci renderà eroici – se occorre – nell’esercizio delle virtù di venerazione».

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domenica 2 novembre 2014

Pie Iesu Domine, dona eis requiem

La morte può essere una cosa desiderabile. Non certo in quanto cessazione della vita, ma come l'avvenimento di una nascita misteriosa. Per designare il giorno della morte dei suoi figli migliori, la Chiesa impiega un termine caratteristico: Dies natalis. La morte non dovrebbe essere per noi tutti che il giorno della nostra nascita al Cielo.
C'è anche il volto tenebroso della morte e il suo corteo di sofferenza e di umiliazione. Non  bisogna prendere questo alla leggera. Gesù è rabbrividito davanti alla morte del suo amico Lazaro. Ma come non desiderare l'istante che segue alla morte? Lo sbocciare dell'anima in Dio; in quel Dio cui ella non ha cessato di appellarsi con tutti i suoi voti durante il suo esilio; l'improvviso fiorire nella luce e nella pienezza! Purtroppo molti non concepiscono le gioie eterne che come l'estensione nel tempo dei nostri miseri piaceri terrestri. Contro questo impoverimento criminale della virtù della speranza, non vi è che un rimedio: la fede. Solo la fede teologale è capace di fare nascere in noi un autentico desiderio della vita eterna. Noi facciamo un credito illimitato a un Dio infinito. Cosa c'è di più coerente?

[Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), meditazione, in Missel quotidien complet pour la forme extraordinaire du rite romain, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2013, p. 2397, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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martedì 21 ottobre 2014

L’arte sacra di Clotilde Devillers - Artigiana dei dettagli

Acquarelli, inchiostri, pitture su legno secondo la tecnica dell’icona, laminati d’oro, ceri pasquali, disegni, casule ricamate, acrilici, miniature su pergamena, bassorilievi in marasco, incisioni, olii su tela, pitture murali, terrecotte, vetrate, sculture in pietra e in legno: colpisce davvero la varietà di espressioni dell’artista francese Clotilde Devillers, la cui opera è ora in parte raccolta nel volume pubblicato dalle edizioni Ama, acronimo di Ateliers Monastique de l’Annonciation (Clotilde Devillers, Le Barroux, 2014, pagine 83, euro 25).
Finito di stampare il 3 giugno, esattamente nella festa di santa Clotilde, il libro è l’occasione per conoscere i quasi trent’anni di attività di questa artista, morta nel 2008 a cinquantadue anni. Sfogliando le pagine, dai primi acquarelli degli anni Ottanta alle ultime opere, nella varietà di materiali e stili, si passa da soggetti di vita quotidiana a raffigurazioni di santi, scene del Vangelo e della vita monastica.
Spiritualmente vicina al pittore polacco canonizzato Albert Chmielowski, che dedicò la sua vita ai poveri, Devillers iniziò a dipingere da piccola, continuando poi a studiare arte. Da subito rivela i tratti che avrebbero caratterizzato la sua produzione: vivacità, energia e dolcezza. Tratti che si fondono con una ricerca spirituale in cammino costante. Conosciuto, nel 1973, il Movimento della gioventù cattolica francese, Clotilde — sempre accompagnata dalla pittura — sperimenta una vita spirituale profonda. Perché quel che vuole fare è «dipingere il sorriso dell’invisibile» per permettere alle persone di accedere alla «gioia del sacro».
Nel 1977 Louise André-Delastre le chiede di illustrare i suoi libri per l’infanzia e la rivista «Patapon», ma la vita di Devillers cambia tre anni dopo quando conosce Albert Gérard, che sta per aprire a Parigi l’atelier cattolico di Sainte- Espérance: Clotilde sarà la prima allieva. Quando l’atelier si sposta in Provenza, a Barroux, presso l’abbazia benedettina di Sainte-Madeleine, la vicinanza con dom Gérard Calvet, l’abate, sarà fonte di grande arricchimento spirituale per Clotilde. Il suo proposito diviene ancora più forte: «Non v’è gioia più grande che quella di creare percorsi luminosi capaci di aiutare le persone ad arrampicarsi verso il cielo». Si considerava un’artigiana, più che un’artista, Clotilde Devillers. Un’artigiana dei dettagli, delle sfumature, verrebbe da aggiungere. Delle sue figure colpiscono innanzitutto la delicatezza. Una delicatezza che traspare dai volti — siano essi raffigurati con la stoffa (come l’Annunciazione su una casula del 1992), con il legno (è, in particolare, il caso della statua di santa Teresa di Gesù bambino, del 1997), con la pietra grezza (Santa Maddalena, 1993) o dipinti (Nostra Signora di Monte Carmelo, 2006).
La delicatezza dei volti, degli sguardi, dei gesti. Ma, soprattutto, la delicatezza delle mani, come la destra di Maria che tiene il capo del figlio morto nel capitello Mater admirabilis nel chiostro dell’abbazia Notre-Dame de l’Annonciation a Le Barroux (si tratta di una serie di quaranta capitelli che illustrano le litanie della Vergine Maria). Ma anche la mano che accarezza il volto di san Giuseppe, nel capitello Virgo clemens.
O, ancora, quelle della Vergine della tenerezza, realizzata per la chiesa di Sainte-Nathalène a Maillac: Maria è in piedi, la veste panneggiata, stringe a sé Gesù. Ha il capo reclinato verso il bimbo, una mano sulla schiena del figlio, l’altra a sorreggerlo. È affettuosa e forte insieme. Un tassello del percorso luminoso lasciatoci da Clotilde.
 
[Giulia Galeotti, "L’arte sacra di Clotilde Devillers. Artigiana dei dettagli", L'Osservatore Romano, 23 agosto 2014, p. 5]

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lunedì 13 ottobre 2014

La gioia in Rancé / quarta parte

[La prima parte qui; la seconda parte qui; la terza parte qui]
 
La gioia nei fratelli
 
I “solitari” di cui parla Rancé sono dei cenobiti, e ciascuno di essi è responsabile della gioia di tutti. Questo è vero anzitutto del superiore: “Che consoli gli afflitti…!”. Perché vi sono “ragioni pressanti per ricorrere a Dio per il riposo, la consolazione e la perfezione dei suoi fratelli” [24]. Il medesimo principio è però valido anche per tutti i membri della comunità. Occorre, dice a loro Rancé, “che vi rendiate gli uni gli altri i contrassegni della dolcezza, dell’affetto e della deferenza che la regolarità del monastero vi può consentire” [25]. Inoltre, la ragione per la quale costoro si devono il buon esempio, è che essi sono “impegnati negli stessi lavori, in una medesima guerra”:
“Come la timidezza e la debolezza di uno solo può causare un indebolimento e una perdita generale, e al contrario molti possono trovare la loro forza e la loro felicità nella costanza e nella fedeltà di uno solo, occorre che la loro difesa sia unica e costante. Che si aiutino gli uni gli altri; che i forti sostengano i deboli; che i più fermi sostengano quanti vacillano, affinché tutti siano uniti in un medesimo sforzo e in un eguale fervore, guadagnino un’identica vittoria, conseguano la stessa corona, e portino a termine le loro battaglie con un simile successo. Siate dunque persuasi che chi manca d’incoraggiare mediante il proprio esempio, tradisce la causa del suo Maestro, si separa dai suoi fratelli e abbandona la loro salvezza” [26].
Al dovere dell’esempio si aggiunge quello della “consolazione” reciproca. Ascoltiamo Rancé parlare di quella che si scambiano i malati con coloro che si prendono cura di loro:
“I fratelli s’illuminano e si edificano gli uni gli altri mediante l’esempio, si fortificano e si sostengono con la preghiera, e quale segno esteriore della loro carità, si legano e si rafforzano nell’unità di un medesimo corpo; senza di che una congregazione monastica non è altro che un assembramento di membri e di parti diverse, che non hanno fra loro né rapporto, né legame, né autentica intelligenza.
“Dovete quindi dare ai vostri fratelli tutte le testimonianze possibili di un affetto purissimo e cordialissimo, e non perdere una sola occasione di fare loro conoscere che li amate: Caritatem fraternitatis casto impendant amore [27]. Quanti sono applicati al servizio della comunità devono adempiere il loro ministero con tanta cura, puntualità e diligenza, che si possa considerare la bontà del loro cuore nelle loro azioni. Se sono incaricati di sollecitare gli ammalati, occorre che riconoscano Gesù Cristo nelle loro persone, che vuole sopportare ciò che non ha voluto soffrire nella propria, e che compie mediante tutti i languori, dolori e altri accidenti delle malattie con cui li visita, ciò che ancora manca alla perfezione delle proprie sofferenze…
“Ma se Gesù Cristo s’incontra nei fratelli infermi e che languono, non è meno in coloro che li consolano e che si applicano a soccorrerli” [28].
Così, nel suo insieme l’istituzione monastica è fonte di felicità: gioia favorita dall’esempio, dall’affetto, dalla preghiera dei fratelli: gioia assicurata dalle cure di cui i religiosi sono oggetto da parte della Chiesa, di cui Rancé dice, a proposito delle “mitigazioni”: “La Chiesa, come una madre caritatevole, toccata dalla sfortuna dei suoi figli e afflitta dalla loro caduta, si è abbassata per rialzarli” [29]. Gioia, infine, assicurata da Dio alla “religione”, cioè alla vita religiosa: “Essa s’impegna di servirlo secondo tutti i precetti, gli strumenti e le pratiche contenuti nella Regola di cui fa professione, e Dio promette in cambio di ricevere i suoi servizi, di renderla felice, e di essere lui stesso la sua felicità, la sua gloria e la sua ricompensa. Quest’obbligo è reciproco” [30].
 
[24] Cap. IX, q. 9, t. I, p. 284.
[25] Cap. X, q. 1, t. I, p. 315.
[26] Ibid., p. 318.
[27] Regula S. Benedicti, 72, 8-9. Rancé riunisce qui dei termini che la recente edizione critica della Regola ha dissociato come facenti parte di due diverse frasi: “caritatem fraternitatis caste impendant; amore Deum timeant”. Cfr. R. Hanslik, Benedicti Regula, CSEL 75, Vienna 1960, p. 163. Non si può tuttavia esigere da nessun autore del secolo XVII che egli anticipasse i risultati della filologia moderna, né quanto al testo della Regola che utilizza, né quanto all’interpretazione che ne dà.
[28] Cap. X, q. 4, t. I, pp. 328-329.
[29] Cap. XXIII, q. 6, t. II, pp. 659-660.
[30] Ibid., q. 2, p. 637. Alla fine dello stesso capitolo si parla ancora di “consolazione” (q. 7, p. 692) e della “gioia degli angeli” (q. 7, p. 693).
 
[Dom Jean Leclercq O.S.B., La joie dans Rancé, Collectanea Ordinis Cisterciensium Reformatorum, 25 (1963), pp. 206-215 (qui pp. 211-213), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B. / 4 - segue]

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venerdì 3 ottobre 2014

Deo gratias

Lo scorso 27 giugno, nella festa del Sacro Cuore, abbiamo avuto la gioia di celebrare il venticinquesimo anniversario di erezione del nostro monastero in abbazia con il cardinale Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i Vescovi, e in presenza del nostro arcivescovo, mons. Jean-Pierre Cattenoz, e di mons. Guillaume, vescovo emerito di Saint-Dié. Il prossimo 13 ottobre festeggeremo il venticinquesimo anniversario della dedicazione della chiesa abbaziale, celebrata all’epoca dal cardinale Gagnon. Profitto di questa lettera per ringraziare il Signore di tutte le grazie ricevute e trasmesse dalla nostra fondazione. Sentiamo spesso parlare di rivalità fra cristiani di diversa tendenza o sensibilità. Ma esiste anche una reale reciprocità.
Per iniziare la litania delle gratitudini, ci volgiamo a Dom Gérard, certamente, al quale dobbiamo la nostra esistenza. Assieme a lui, ringraziamo tutti i fratelli che hanno strutturato la comunità, alcuni dei quali, sfortunatamente, ci hanno lasciato, in particolare padre Jehan, padre Joseph, padre Anselme.
Mi riferisco ora alle comunità benedettine per il loro prezioso aiuto. Grazie alle abbazie di Tournay, di En-Calcat, di Monts-des-Cats, di Hauterive, di Saint-Wandrille, della Pierre-qui-Vire e di Fontgombault, per averci trasmesso in vario modo la vita monastica, i princìpi dello scolasticato e della liturgia. Devo una menzione speciale alle abbazie di Saint-Benoît-sur-Loire e di Randol, che ci hanno aiutato a redigere le nostre Dichiarazioni, le quali precisano l’applicazione della Regola di san Benedetto. Dom de Lesquen, all’epoca abate di Randol, fu a questo titolo per qualche tempo il subdelegato della Santa Sede presso la nostra comunità.
La nostra gratitudine va inoltre a tutti i professori che ci hanno aiutato ad aprire gli occhi alla luce che divinizza: il cardinale Charles Journet, il padre Guérard des Lauriers – rinomato domenicano che, malgrado un ultimo tentativo di Dom Gérard, è finito nello scisma –, i sacerdoti Contat, Lucien e il reverendo padre Ignace de la Potterie. Non li posso nominare tutti.
Come non menzionare tutti i vescovi, che hanno profondamente contribuito a costruire la comunità con le ordinazioni? Mons. Marcel Lefebvre ha ordinato tutti i sacerdoti della comunità prima del 1988. Ma la scelta che fece Dom Gérard assieme alla comunità di non seguirlo nel suo atto scismatico fu quella giusta, perché come diceva il cardinale Joseph Ratzinger, “mons. Lefebvre aveva delle ragioni, ma non aveva ragione”. Dal 1984 l’abbazia è stata aiutata dai cardinali Mayer, Stickler e Siri. Poi, più tardi, il cardinale Medina, che ha conferito le benedizioni abbaziali a Madre Placide e al vostro servitore, e tutti i vescovi che sono venuti a fare le ordinazioni: i cardinali Barbarin, Panafieu, Rodé, i vescovi Aillet, Aumonier, Brincard, Cattenoz, Centène, Defois, Descubes, Fort, Gaidon, Guillaume, Haas, Herbreteau, Lagrange, Madec, N’Koué, Rey, Ricard, Rifan, Sardou e Séguy. Non è possibile citare tutti i prelati che parteciparono alla dedicazione della nostra chiesa, ma occorre ricordare mons. Bouchex, allora arcivescovo di Avignone.
Ora devo ringraziare tre persone che hanno esercitato un’autentica paternità nei confronti della comunità: Dom Hervé Courau, abate di Triors, che da molti anni è il nostro abate visitatore, pieno di carità e di prudenza. Mons. Camille Perl, segretario e poi vice-presidente della Commissione Ecclesia Dei, per la sua instancabile dedizione nei nostri confronti. E infine, Benedetto XVI. Lo scorso 27 giugno gli ho scritto una lettera menzionando tutto quello che aveva fatto per noi. Sono state necessarie due pagine intere.
Per finire, ci tengo a ringraziare le comunità Ecclesia Dei: particolarmente la Fraternità San Vincenzo Ferrer, la Fraternità San Pietro e l’Istituto Cristo Re, per il loro aiuto dottrinale, fraterno e diplomatico, l’Associazione Santa Croce di Riaumont, i canonici dell’abbazia di Lagrasse… E le nostre care monache!
 
[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, editoriale di Les amis du monastère, n. 151, 14 settembre 2014, pp. 1-2, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

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mercoledì 1 ottobre 2014

Il nocciolo del monachesimo è l’adorazione

Novizi (con lo scapolare bianco) dell'abbazia cistercense di Heiligenkreuz
Con piacere, nel mio pellegrinaggio alla Magna Mater Austriae, sono venuto anche nell’Abbazia di Heiligenkreuz, che non è solo una tappa importante sulla Via Sacra verso Mariazell, ma il più antico monastero cistercense del mondo restato attivo senza interruzione. Ho voluto venire a questo luogo ricco di storia, per attirare l’attenzione alla direttiva fondamentale di san Benedetto, secondo la cui Regula vivono anche i cistercensi. Benedetto dispone concisamente di “non anteporre nulla al divino Officio” (Regula Benedicti 43,3).
Per questo in un monastero di impostazione benedettina, le lodi di Dio, che i monaci celebrano come solenne preghiera corale, hanno sempre la priorità. Certo – e grazie a Dio! –, non sono solo i monaci che pregano; anche altre persone pregano: bambini, giovani e anziani, uomini e donne, persone sposate e nubili – ogni cristiano prega, o almeno dovrebbe farlo!
Nella vita dei monaci, tuttavia, la preghiera ha una speciale importanza: è il centro del loro compito professionale. Essi, infatti, esercitano la professione dell’orante. Nell’epoca dei Padri della Chiesa, la vita monastica veniva qualificata come vita a modo degli angeli. E come caratteristica essenziale degli angeli si vedeva il loro essere adoratori. La loro vita è adorazione. Questo dovrebbe valere anche per i monaci. Essi pregano innanzitutto non per questa o quell’altra cosa, ma semplicemente perché Dio merita di essere adorato. “Confitemini Domino, quoniam bonus! – Celebrate il Signore, perché è buono, perché eterna è la sua misericordia!”, esortano vari Salmi (ad es. Sal 106, 1). Una tale preghiera senza scopo specifico, che vuol essere puro servizio divino viene perciò chiamata con ragione “officium”. È il “servizio” per eccellenza, il “servizio sacro” dei monaci. Esso è offerto al Dio trinitario che, al di sopra di tutto, è degno “di ricevere la gloria, l’onore e la potenza” (Ap 4,11), perché ha creato il mondo in modo meraviglioso e in modo ancora più meraviglioso l’ha rinnovato.
Allo stesso tempo, l’officium dei consacrati è anche un servizio sacro agli uomini e una testimonianza per loro. Ogni uomo porta nell’intimo del suo cuore, consapevolmente o in modo inconscio, la nostalgia di un definitivo appagamento, della massima felicità, quindi in fondo di Dio. Un monastero, in cui la comunità si raduna più volte al giorno per lodare Dio, testimonia che questo originario desiderio umano non cade nel vuoto: il Dio Creatore non ha posto noi uomini in tenebre spaventose dove, andando a tentoni, dovremmo disperatamente cercare un fondamentale ultimo senso (cfr At 17,27); Dio non ci ha abbandonati in un deserto del nulla, privo di senso, dove, in definitiva, ci aspetta soltanto la morte. No! Dio ha illuminato le nostre tenebre con la sua luce, per opera del suo Figlio Gesù Cristo. In Lui, Dio è entrato nel nostro mondo con tutta la sua “pienezza” (cfr Col 1,19), in Lui ogni verità, di cui abbiamo nostalgia, ha la sua origine ed il suo culmine (cfr Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 22).
La nostra luce, la nostra verità, la nostra meta, il nostro appagamento, la nostra vita – tutto ciò non è una dottrina religiosa, ma una Persona: Gesù Cristo. Molto al di là delle nostre capacità di cercare e di desiderare Dio, siamo già prima stati cercati e desiderati, anzi, trovati e redenti da Lui! Lo sguardo degli uomini di ogni tempo e popolo, di tutte le filosofie, le religioni e le culture incontra infine gli occhi spalancati del Figlio di Dio crocifisso e risorto; il suo cuore aperto è la pienezza dell’amore. Gli occhi di Cristo sono lo sguardo del Dio che ama. L’immagine del Crocifisso sopra l’altare, il cui originale romano si trova nel Duomo di Sarzano, mostra che questo sguardo si volge ad ogni uomo. Il Signore, infatti, guarda nel cuore di ciascuno di noi.
Il nocciolo del monachesimo è l’adorazione – il vivere alla maniera degli angeli. Essendo, tuttavia, i monaci uomini con carne e sangue su questa terra, san Benedetto all’imperativo centrale dell’“ora” ne ha aggiunto un secondo: il “labora”. Secondo il concetto di san Benedetto come anche di san Bernardo, una parte della vita monastica, insieme alla preghiera, è anche il lavoro, la coltivazione della terra in conformità alla volontà del Creatore. Così in tutti i secoli i monaci, partendo dal loro sguardo rivolto a Dio, hanno reso la terra vivibile e bella. La salvaguardia e il risanamento della creazione provenivano proprio dal loro guardare a Dio. Nel ritmo dell’ora et labora la comunità dei consacrati dà testimonianza di quel Dio che in Gesù Cristo ci guarda, e uomo e mondo, guardati da Lui, diventano buoni.
Non solo i monaci dicono l’officium, ma la Chiesa dalla tradizione monastica ha derivato per tutti i religiosi, ed anche per sacerdoti e diaconi la recita del Breviario. Vale anche qui che le religiose e i religiosi, i sacerdoti e i diaconi – e naturalmente anche i Vescovi – nella quotidiana preghiera “ufficiale” si presentano davanti a Dio con inni e salmi, con ringraziamenti e domande senza scopi specifici.
Cari confratelli nel ministero sacerdotale e diaconale, cari fratelli e sorelle nella vita consacrata! Io so che ci vuole disciplina, anzi, a volte anche superamento di sé per recitare fedelmente il Breviario; ma mediante questo officium riceviamo allo stesso tempo molte ricchezze: quante volte nel fare ciò stanchezza e abbattimento si dileguano! E là dove Dio viene lodato ed adorato con fedeltà, la sua benedizione non manca. Con ragione si dice in Austria: “Tutto dipende dalla benedizione di Dio!”
Il vostro servizio primario per questo mondo deve quindi essere la vostra preghiera e la celebrazione del divino Officio. La disposizione interiore di ogni sacerdote, di ogni persona consacrata deve essere quella di “non anteporre nulla al divino Officio”. La bellezza di una tale disposizione interiore si esprimerà nella bellezza della liturgia al punto che là dove insieme cantiamo, lodiamo, esaltiamo ed adoriamo Dio, si rende presente sulla terra un pezzetto di cielo. Non è davvero temerario se in una liturgia totalmente centrata su Dio, nei riti e nei canti, si vede un’immagine dell’eternità. Altrimenti, come avrebbero potuto i nostri antenati centinaia di anni fa costruire un edificio sacro così solenne come questo? Già la sola architettura qui attrae in alto i nostri sensi verso “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano” (cfr 1 Cor 2, 9).In ogni forma di impegno per la liturgia criterio determinante deve essere sempre lo sguardo verso Dio. Noi stiamo davanti a Dio – Egli ci parla e noi parliamo a Lui. Là dove, nelle riflessioni sulla liturgia, ci si chiede soltanto come renderla attraente, interessante e bella, la partita è già persa. O essa è opus Dei con Dio come specifico soggetto o non è. In questo contesto io vi chiedo: realizzate la sacra liturgia avendo lo sguardo a Dio nella comunione dei santi, della Chiesa vivente di tutti i luoghi e di tutti i tempi, affinché diventi espressione della bellezza e della sublimità del Dio amico degli uomini!
L’anima della preghiera, infine, è lo Spirito Santo. Sempre, quando preghiamo, è in verità Lui che “viene in aiuto alla nostra debolezza, intercedendo con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili” (cfr Rm 8, 26). Confidando in questa parola dell’apostolo Paolo vi assicuro, cari fratelli e sorelle, che la preghiera susciterà in voi quell’effetto che una volta si esprimeva chiamando sacerdoti e persone consacrate semplicemente “Geistliche” (cioè persone spirituali). Il Vescovo Sailer di Ratisbona disse una volta che i sacerdoti dovrebbero essere prima di tutto persone spirituali. Mi piacerebbe se l’espressione “Geistliche” ritornasse nuovamente più in uso. È però soprattutto importante che si realizzi in noi quella realtà che la parola descrive: che nella sequela del Signore, in virtù della forza dello Spirito, diventiamo persone “spirituali”.
L’Austria è, come si dice in doppio senso, veramente “Klösterreich”: regno di monasteri e ricca di monasteri. Le vostre antichissime abbazie con origini e tradizioni che risalgono a secoli fa sono luoghi della “preferenza per Dio”. Cari confratelli, rendete molto evidente per gli uomini questa priorità di Dio! Come oasi spirituale un monastero indica al mondo di oggi la cosa più importante, anzi, alla fine l’unica cosa decisiva: esiste un’ultima ragione per cui vale la pena vivere, cioè Dio e il suo amore imperscrutabile.
E chiedo a voi, cari fedeli, considerate le vostre abbazie e i vostri monasteri quello che sono e sempre vogliono essere: non soltanto luoghi di cultura e di tradizione o addirittura semplici aziende economiche. Struttura, organizzazione ed economia sono necessarie anche nella Chiesa, ma non sono la cosa essenziale. Un monastero è soprattutto questo: un luogo di forza spirituale. Arrivando in uno dei vostri monasteri qui in Austria si ha la stessa impressione di quando, dopo una camminata sulle Alpi che è costata sudore, finalmente ci si può rinfrescare ad un ruscello di acqua sorgiva… Approfittate dunque di queste sorgenti della vicinanza di Dio nel vostro Paese, stimate le comunità religiose, i monasteri e le abbazie e ricorrete al servizio spirituale che i consacrati sono disposti ad offrirvi!
La mia visita, infine, è rivolta all’Accademia ormai Pontificia che si trova nel 205o anniversario della sua fondazione e che, nel suo stato nuovo, dall’Abate ha ricevuto il nome aggiuntivo dell’attuale successore di Pietro. Per quanto sia importante l’integrazione della disciplina teologica nell’universitas del sapere mediante le facoltà teologiche cattoliche nelle università statali, è tuttavia altrettanto importante che ci siano luoghi di studi così profilati come il vostro, dove è possibile un legame approfondito tra teologia scientifica e spiritualità vissuta. Dio, infatti, non è mai semplicemente l’Oggetto della teologia, è sempre allo stesso tempo anche il suo Soggetto vivente. La teologia cristiana, del resto, non è mai un discorso solamente umano su Dio, ma è sempre al contempo il Logos e la logica in cui Dio si rivela. Per questo intellettualità scientifica e devozione vissuta sono due elementi dello studio che, in una complementarietà irrinunciabile, dipendono l’una dall’altra.
Il padre dell’Ordine cistercense, san Bernardo, a suo tempo ha lottato contro il distacco di una razionalità oggettivante dalla corrente della spiritualità ecclesiale. La nostra situazione oggi, pur diversa, ha però anche notevoli somiglianze. Nell’ansia di ottenere il riconoscimento di rigorosa scientificità nel senso moderno, la teologia può perdere il respiro della fede. Ma come una liturgia che dimentica lo sguardo a Dio è, come tale, al lumicino, così anche una teologia che non respira più nello spazio della fede, cessa di essere teologia; finisce per ridursi ad una serie di discipline più o meno collegate tra di loro. Dove invece si pratica una “teologia in ginocchio”, come richiedeva Hans Urs von Balthasar (cfr Theologie und Heiligkeit, Aufsatz von 1948 in: Verbum Caro. Schriften zur Theologie I, Einsiedeln 1960, 195-224), non mancherà la fecondità per la Chiesa in Austria ed anche oltre.
Questa fecondità si mostra nel sostegno e nella formazione di persone che portano in sé una chiamata spirituale. Perché oggi una chiamata al sacerdozio o allo stato religioso possa essere sostenuta fedelmente lungo tutta la vita, occorre una formazione che integri fede e ragione, cuore e mente, vita e pensiero. Una vita al seguito di Cristo ha bisogno dell’integrazione dell’intera personalità. Dove si trascura la dimensione intellettuale, nasce troppo facilmente una forma di pia infatuazione che vive quasi esclusivamente di emozioni e di stati d’animo che non possono essere sostenuti per tutta la vita. E dove si trascura la dimensione spirituale, si crea un razionalismo rarefatto che sulla base della sua freddezza e del suo distacco non può mai sfociare in una donazione entusiasta di sé a Dio. Non si può fondare una vita al seguito di Cristo su tali unilateralità; con le mezze misure si resterebbe personalmente insoddisfatti e, di conseguenza, forse anche spiritualmente sterili. Ogni chiamata alla vita religiosa o al sacerdozio è un tesoro così prezioso che i responsabili devono fare tutto il possibile per trovare le vie di formazione adatte per promuovere insieme fides et ratio – la fede e la ragione, il cuore e la mente.
San Leopoldo d’Austria – l’abbiamo sentito poc’anzi – su consiglio del figlio, il beato Vescovo Otto di Frisinga che fu mio predecessore sulla sede vescovile di Frisinga (in Frisinga si celebra oggi la sua festa), fondò nel 1133 la vostra abbazia, dandole il nome di “Unsere Liebe Frau zum Heiligen Kreuz” - Nostra Signora della Santa Croce. Questo monastero non è dedicato alla Madonna solo tradizionalmente – come tutti i monasteri cistercensi –, ma qui arde il fuoco mariano di un san Bernardo di Chiaravalle. Bernardo che, insieme a 30 compagni entrò nel monastero, è una specie di Patrono delle chiamate spirituali. Forse aveva un ascendente così entusiasmante ed incoraggiante su molti giovani del suo tempo chiamati da Dio, perché era animato da una particolare devozione mariana. Dove c’è Maria, là c’è l’immagine primigenia della donazione totale e della sequela di Cristo. Dove c’è Maria, là c’è il soffio pentecostale dello Spirito Santo, là c’è l’avvio e un rinnovamento autentico.
Da questo luogo mariano sulla Via Sacra auguro a tutti i luoghi spirituali in Austria fecondità e capacità di irraggiamento. Qui vorrei prima della mia partenza, come già a Mariazell, chiedere alla Madre di Dio ancora una volta di intercedere per tutta l’Austria. Con le parole di san Bernardo invito ciascuno a farsi davanti a Maria fiduciosamente “bambino”, come lo ha fatto il Figlio stesso di Dio. San Bernardo dice, e noi diciamo con lui: “Guarda la stella, invoca Maria … Nei pericoli, nella angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Non s’allontani il suo nome dalla tua bocca, non si allontani dal tuo cuore … Seguendo lei non ti smarrisci, pregando lei non ti disperi, pensando a lei non sbagli. Se lei ti tiene, non cadi; se lei ti protegge, non temi; se lei ti guida, non ti stanchi, se lei ti concede il suo favore, tu arrivi al tuo fine” (Bernardo di Chiaravalle, In laudibus Virginis Matris, Homilia 2, 17).
[Benedetto XVI, Discorso all'Abbazia di Heiligenkreux durante il viaggio apostolico in Austria in occasione dell'850° anniversario della fondazione del Santuario di Mariazell, 9 settembre 2007]

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