giovedì 19 gennaio 2017

L’altare verso il popolo. Domande e risposte / 9

undicesima domanda

Tutto ciò è molto bello… Ma non bisogna fare i conti con il fatto che l’uomo moderno non è più tanto capace di comprendere che per pregare bisogna rivolgersi a Oriente? Per lui il sol levante non ha più la forza simbolica che aveva per l’uomo dell’antichità e che conserva ancora oggi nei Paesi mediterranei, battuti dal sole in maniera più intensa che da noi, “uomini del nord”. Per i cristiani di oggi è tuttavia la comunità della mensa eucaristica ciò che prevale.

Anche se l’uomo moderno non presta più attenzione alla direzione esatta verso cui prega –  anche se i musulmani continuano a volgersi verso La Mecca e gli ebrei verso Gerusalemme –, tuttavia non dovrebbe avere difficoltà a comprendere il significato che riveste il fatto che il sacerdote e i fedeli preghino insieme nella medesima direzione. In ogni caso, l’uso che tutti i presenti siano insieme orientati “verso il Signore” è qualcosa d’intemporale e conserva anche oggi tutto il suo significato.
A fianco dell’aspetto teologico relativo al faccia a faccia tra il sacerdote e i fedeli nel momento della celebrazione del sacrificio eucaristico, è il caso di richiamare anche i problemi di ordine sociologico, che appartengono essi stessi alla messa in risalto della “comunità della mensa eucaristica”.
Il prof. Wigand Siebel, nel suo piccolo libro intitolato Liturgie als Angebot (“La liturgia all’asta”), pensa che il sacerdote rivolto verso il popolo può essere considerato come “il simbolo più perfetto del nuovo spirito della liturgia”. Egli aggiunge: “La posizione in uso fino a ieri faceva apparire il prete come il capo e il rappresentante della comunità, che parlava a Dio in nome di quest’ultima, come Mosè sul Sinai: la comunità indirizza a Dio un messaggio – preghiera, adorazione, sacrificio –, il prete, in quanto capo, trasmette questo messaggio, e Dio lo riceve”.
Con la nuova pratica, prosegue Siebel, il sacerdote “non sembra più nemmeno il rappresentante della comunità, piuttosto un attore che – almeno nella parte centrale della messa – svolge il ruolo di Dio, un po’ come a Oberammergau o in altre rappresentazioni della Passione”. Conclude: “Ma se, in nome di questa nuova svolta, il prete diventa un attore incaricato d’interpretare il Cristo sulla scena, ecco che allora, a causa di questa riproposizione teatrale della Cena, Cristo e il prete finiscono con l’identificarsi in una maniera talora insopportabile”.
Siebel spiega anche la buona volontà con la quale i preti hanno adottato la celebrazione versus populum: “Il considerevole disorientamento e la solitudine dei preti hanno fatto sì che essi cercassero dei nuovi punti d’appoggio per il loro comportamento. Fra questi vi è il sostegno emotivo che procura al prete la comunità riunita davanti a lui. Ma ecco che nasce immediatamente una nuova dipendenza: quella dell’attore di fronte al suo pubblico”.
Anche Karl Guido Rey, nel suo libro Pubertätserscheinungen in der katholischen Kirche (“Manifestazioni pubertarie nella Chiesa cattolica”), dichiara: “Mentre fino a ieri il prete offriva il sacrificio in quanto intermediario anonimo, in quanto capo della comunità, rivolto a Dio e non al popolo, in nome di tutti e con tutti; mentre fino a ieri pronunciava delle preghiere […] che gli erano state prescritte, oggi questo prete ci viene incontro in quanto uomo, con le sue particolarità umane, con il suo stile di vita personale, il volto rivolto a noi. Per molti preti diventa forte la tentazione di prostituire la propria persona, tentazione contro la quale non hanno la statura per lottare. Alcuni molto astutamente, e altri con minore astuzia, volgono la situazione a proprio vantaggio. Le loro attitudini, la loro mimica, i loro gesti, tutto il loro comportamento attira gli sguardi che si fissano su di loro, per le loro ripetute osservazioni, le loro direttive, le parole d’accoglienza o d’addio. […] Il successo di quanto suggeriscono costituisce perciò la misura del loro potere e, quindi, la norma della loro sicurezza” (p. 25).
Nella sua opera Liturgie als Angebot, Siebel dichiara inoltre, a proposito dell’auspicio di Klauser che abbiamo precedentemente menzionato, “di vedere più chiaramente espressa la comunità della mensa eucaristica” grazie alla celebrazione versus populum: “L’auspicata riunione dell’assemblea attorno al tavolo della Cena, non può certo contribuire a un rafforzamento della coscienza comunitaria. In effetti, solo il sacerdote rimane al tavolo, e per di più in piedi; gli altri partecipanti al pasto sono seduti più o meno lontani, nella sala del teatro”.
Ancora, secondo Siebel: “Come regola generale, il tavolo è posto lontano dai fedeli, su un palco, così che non è possibile fare rivivere gli intimi rapporti che esistevano nella sala in cui si svolse la Cena. Il prete che svolge il suo ruolo girato verso il popolo, difficilmente può evitare di dare l’impressione di rappresentare un personaggio che, pieno di gentilezza, viene a proporci qualcosa. Per limitare questa impressione si è provato a piazzare l’altare in mezzo all’assemblea. Non si è dunque più costretti a guardare solo il prete, l’occhio può spaziare anche sugli assistenti che gli stanno a fianco; ma così facendo si fa sparire il distacco esistente fra la spazio sacro e l’assemblea. L’emozione un tempo suscitata dalla presenza di Dio nella chiesa, si muta in un pallido sentimento che si distingue appena dalla quotidianità”.
Ponendosi dietro l’altare, con lo sguardo rivolto al popolo, il sacerdote diventa, dal punto di vista sociologico, sia un attore interamente dipendente dal suo pubblico, sia un venditore che ha qualcosa da proporre.
Nel libro che abbiamo già citato, Das Konzil der Buchhalter, Alfred Lorenzer richiama ancora altri punti di vista, in particolare d’ordine estetico: “Non solo il microfono rivela ogni respiro, ogni rumore occasionale, ma la scena che si svolge assomiglia molto più alla presentazione televisiva di certe ricette di cucina, che alle forme liturgiche delle Chiese riformate. Mentre in queste ultime l’azione sacra è stata emarginata – ridotta al massimo di semplicità e brevità –, nella riforma liturgica [cattolica] è questa azione a rimanere preponderante: privata dei suoi ornamenti gestuali essa conserva minuziosamente tutta la complessità del suo svolgimento, ed è ormai presentata agli occhi di tutti in una pseduo-trasparenza che confonde la percezione sensibile delle manipolazioni con la trasparenza del mito, manipolazioni che sono eseguite in maniera tale che ogni dettaglio di questo rituale alimentare finisce con l’essere esibito sempre con poca discrezione. Si vede un uomo rompere con difficoltà un’ostia che resiste, si vede come egli se la mette in bocca, si diviene testimoni di abitudini masticatorie personali, non sempre molto belle, di modi con cui ingoiare del pane secco, di tecniche usate per far girare il calice da purificare e di sistemi più o meno abili per asciugarlo” (p. 192).
Queste sono le conseguenze sociologiche della posizione del celebrante di fronte all’assemblea. Certo, le cose stanno diversamente al momento della proclamazione della Parola di Dio. Questa azione presuppone proprio il faccia a faccia tra il prete e il popolo, com’è stato sempre scontato che il predicatore si rivolgesse verso i fedeli, al pari del diacono che cantava il Vangelo. Ma, come abbiamo già detto, è cosa ben diversa la celebrazione del vero e proprio sacrificio eucaristico: in questo caso la liturgia non è una “offerta” ai fedeli, come lo è la liturgia della Parola, bensì un avvenimento sacro nel corso del quale il cielo e la terra si uniscono e il Dio della grazia s’inclina verso di noi. Solo al momento della comunione, del pasto eucaristico vero e proprio, si ritorna al faccia a faccia tra il prete e i comunicandi.
Questi cambiamenti di posizione del celebrante all’altare durante la messa hanno un preciso significato simbolico e sociologico. Quando il celebrante prega e sacrifica, egli ha – come tutti i fedeli – gli occhi rivolti a Dio, mentre quando proclama la Parola di Dio e distribuisce l’eucaristia si gira verso il popolo.
Come abbiamo visto, il rivolgersi a Est è così antico che la Chiesa ha fatto di questa attitudine un uso che non può essere modificato. “Si cerca” costantemente “con gli occhi il luogo ove è posto il Signore” (J. Kunstmann); o, come dice Origene nel suo libro sulla preghiera (cap. 32), vi è in ciò “un simbolo, quello dell’anima che guarda verso il sorgere della vera luce”, “nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo” (Tt 2, 13).

[Klaus Gamber, “L’autel face au peuple. Questions et réponses”, in Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 48-52) / 9 - continua]

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