martedì 28 febbraio 2017

Nono anniversario della morte di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008)

[Oggi 28 febbraio 2017 ricorre il nono anniversario della morte di Dom Gérard Calvet O.S.B. (1927-2008), fondatore e primo abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux. Lo ricordiamo nelle preghiere e lo raccomandiamo a quelle dei lettori. Offriamo di seguito un estratto della prefazione di Dom Gérard (pp. 5-11, qui p. 6) al libretto-intervista di Philippe Maxence a James Taylor, Restaurer l’éducation chrétienne (Editions de L’Homme Nouveau, Parigi 2008), trad. it di fr. Romualdo Obl.S.B.]

Conoscete la vita degli antichi monaci, che un tempo si spinsero nelle foreste della Germania, dove non intendevano fondare delle accademie, né avevano l’agio di dissertare su delle astrazioni. Cosa facevano? Disboscavano, pregavano, leggevano nel grande libro della Sacra Scrittura, si esercitavano nell’arte di vivere insieme, in mezzo alle popolazioni barbare che cercavano di imitarli, quando non li massacravano.
Fratello, aprite il vostro il vostro esemplare della santa Regola, non vi troverete un sistema di evangelizzazione; scoprirete la traccia di questa atmosfera dolce, tranquilla, della terra: un tempo consacrato alla preghiera e al lavoro dei campi, alla salmodia del giorno e della notte, regolato e disposto non secondo un parametro umano, ma in funzione della posizione del sole nel cielo.
Vedrete la cura che l’uomo di Dio presta alle cose della terra: “si trovi tutto l’occorrente, ossia l’acqua, il mulino, l’orto (RB 66) […] riteniamo che per il pranzo […] siano sufficienti due pietanze cotte (RB 39) […] crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa (RB 40) […] basti per ciascun monaco una tonaca e una cocolla, quest’ultima di lana pesante per l’inverno e leggera o lisa per l’estate (RB 55) […] in ogni stagione, sia l’ora del pranzo che quella della cena devono essere fissate in maniera che tutto si possa fare con la luce del sole, ut cum luce fiant omnia (RB 41)”.
Vi è là una grande dolcezza. Quel che Newman chiamava il carattere virgiliano del monachesimo.
Aggiungiamo la santa liturgia, con il suo ciclo annuale delle feste, che da solo è tutto un poema: vivere passo dopo passo i misteri del Signore Gesù; una poesia fresca, così semplice, di cui non ci si stanca, alla portata degli umili e dei sapienti. Sì, è lo spirito benedettino.

Share/Save/Bookmark

venerdì 10 febbraio 2017

Sequenza per la Messa di santa Scolastica

Emicat merídies,

Et beáta réquies
Vírgini Scholásticæ.
Intrat in cubícula;
Sponsi petit óscula,
Quem amávit únice.
Quantis cum gemítibus
Cordis et ardóribus
Hæc diléctum quæsiit.
Movit cælos lácrimis,
Imbribúsque plúrimis
Pectus fratris mólliit.
O grata collóquia,
Cum cælórum gáudia
Benedíctus éxplicat!
Ardent desidéria,
Mentis et suspíria
Virgo sponsus éxcitat.
Veni formosíssima,
Sponsa dilectíssima,
Veni, coronáberis.
Dórmies in líliis,
Afflues delíciis,
Et inebriáberis.
O colúmba vírginum,
Quæ de ripis flúminum
Adis aulam glóriæ;
Trahe nos odóribus,
Pasce et ubéribus
Immortális grátiæ.
Amen. Allelúia.

Share/Save/Bookmark

venerdì 3 febbraio 2017

L’altare verso il popolo. Domande e risposte / 10 (ultima parte)

dodicesima domanda

Perché il carattere sacrificale della messa, come si sostiene, sarebbe meno chiaramente espresso quando il prete è girato verso il popolo?

Rovesciamo la domanda: poiché nell’ambiente degli specialisti è perfettamente noto che spingendo per “l’altare verso il popolo” non ci si può richiamare a una pratica della Chiesa primitiva, perché non se ne trae la conseguenza che s’impone, perché non si sopprimono le “mense della cena” erette con una sorprendente unanimità nel mondo intero?
Molto probabilmente perché esse corrispondono meglio, rispetto alla pratica antica, alla nuova concezione della messa e dell’eucaristia.
È molto chiaro che al giorno d’oggi si vorrebbe evitare di dare l’impressione che la “santa tavola” (come viene chiamato l’altare in Oriente) possa essere un altare per il sacrificio. Senza dubbio è la stessa ragione per cui, quasi dappertutto, si pone sull’altare un mazzo di fiori (uno solo), come sulla tavola di un pranzo di festa in famiglia, insieme a due o tre ceri. Questi ultimi quasi sempre a sinistra della tavola, mentre il vaso di fiori occupa l’altro lato.
L’assenza di simmetria è voluta: non bisogna creare dei punti di riferimento centrali, come quando si mettevano i candelieri alla destra e alla sinistra della croce, che stava in mezzo; qui si tratta solo di una tavola da pranzo.
Ci si mette davanti l’altare del sacrificio. Non si rimane dietro. Si faceva già così al tempo del sacrificatore pagano. Nel santuario, il suo sguardo era diretto verso la rappresentazione della divinità cui era offerto il sacrificio. Si faceva così anche nel Tempio di Gerusalemme, dove il sacerdote incaricato di offrire la vittima stava davanti alla “tavola del Signore” (Ml 1, 12), come si chiamava il grande altare dell’olocausto nel cortile del Tempio, di fronte al tempio interno che custodiva l’Arca dell’Alleanza, nel Santo dei Santi, il luogo in cui dimorava l’Altissimo.
Un pasto si consuma sotto la presidenza del padre di famiglia, nel mezzo della cerchia famigliare; in tutte le religioni, invece, è un liturgo designato a tale scopo che compie il sacrificio, all’interno o davanti a un santuario (che può essere anche un albero sacro). Il liturgo è separato dalla folla e sta davanti a essa, di fronte all’altare, rivolto alla divinità. In ogni tempo, gli uomini che hanno offerto un sacrificio si sono sempre rivolti verso colui al quale il sacrificio era destinato, e non verso i partecipanti alla cerimonia.
Nel suo commento al libro dei Numeri (10, 27), Origene si fa interprete della concezione della Chiesa primitiva: “Colui che si pone davanti all’altare dimostra con ciò di svolgere le funzioni sacerdotali. Ora, la funzione del prete consiste nell’intercedere per i peccati del popolo”. Ai giorni nostri, in cui il senso del peccato sparisce sempre più, la concezione espressa da Origene sembra essersi largamente perduta.
Lutero, è noto, ha negato il carattere sacrificale della messa: egli non vedeva in essa altro che la proclamazione della parola di Dio, seguita da una celebrazione della Cena. Da qui la sua preoccupazione di vedere il liturgo rivolgersi verso l’assemblea.
Alcuni teologi cattolici moderni non negano direttamente il carattere sacrificale della messa, ma preferirebbero che questo passasse in secondo piano, onde potere meglio sottolineare il carattere di pasto della celebrazione. Il più delle volte ciò accade a causa di considerazioni ecumeniche in favore dei protestanti, dimenticando però che per le Chiese orientali ortodosse il carattere sacrificale della divina liturgia è un fatto indiscutibile.
Solo l’eliminazione della tavola da pranzo e il ritorno alla celebrazione all’“altare maggiore” potranno condurre a un cambiamento nella concezione della messa e dell’eucaristia, e cioè alla messa intesa come atto d’adorazione e di venerazione di Dio, come atto d’azione di grazia per i suoi benefici, per la nostra salvezza e la nostra vocazione al regno celeste, e come rappresentazione mistica del sacrificio della croce del Signore.
Ciò non esclude, tuttavia, come abbiamo visto, che la liturgia della Parola sia celebrata non all’altare, ma dal seggio o dall’ambone, com’era un tempo durante la messa episcopale. Ma le preghiere devono essere tutte recitate in direzione dell’Oriente, e cioè in direzione dell’immagine di Cristo nell’abside e della croce sull’altare.
Poiché durante il nostro pellegrinaggio terreno non ci è possibile contemplare tutta la grandezza del mistero celebrato, e ancor meno lo stesso Cristo, né l’“assemblea celeste”, non basta parlare ininterrottamente di ciò che il sacrificio della messa ha di sublime, bisogna invece fare di tutto per mettere in evidenza, agli occhi degli uomini, la grandezza di questo sacrificio, per mezzo della stessa celebrazione e della sistemazione artistica della casa del Signore, in particolar modo dell’altare.
Si può applicare allo svolgimento della liturgia e alle immagini, ciò che dice dei “veli sacri” lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita, nella sua opera sui nomi divini (1, 4): questi veli “che [ancora adesso] nascondono lo spirituale nell’universo sensibile, e il sovra terreno nel terreno, che conferiscono forma e immagine a ciò che non ha né forma né immagine… Ma verrà il giorno in cui, essendo divenuti incorruttibili e immortali e avendo raggiunto la pace beata accanto a Cristo, noi saremo, come dice la Scrittura, presso il Signore (cfr. 1 Ts 4, 17), riempiti della contemplazione della sua apparizione visibile”.

[Klaus Gamber, “L’autel face au peuple. Questions et réponses”, in Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 52-55) / 10 - fine]

Share/Save/Bookmark