venerdì 21 aprile 2017

Nazarena - Una reclusa nel cuore di Roma

[Nel corso di questi anni ci siamo dedicati in varie occasioni della monaca reclusa di origini statunitensi suor Maria Nazarena O.S.B. Cam. (Julia Crotta, 1907-1990), auspicando che si diffonda la conoscenza e lamicizia spirituale con questa straordinaria figura di santità, tipo esemplare di “Madre del deserto” del secolo XX, alla quale sempre ci si accosta con un senso di vertigine umana e spirituale, e della quale invochiamo lintercessione. Ci sia permesso di ricordare i nostri precedenti interventi: nel 2010 qui, nel 2013 qui, nel 2015 qui e qui. La nostra prima lettura riguardante Nazarena fu il libro di padre Louis-Albert Lassus O.P. (1916-2002), Nazarena, Une recluse au coeur de Rome. 1907-1990, Editions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1996. Siamo dunque oltremodo lieti di presentare ledizione italiana di questo testo (qui di seguito lintroduzione, pp. 7-11), reso amorevolmente disponibile nella collana Laboratorio della Fede per conto dell’Eremo della Beata Vergine del Soccorso di Minucciano (Lucca): Louis-Albert Lassus O.P., Suor Nazarena reclusaEdizioni Kolbe, Seriate (Bergamo) 2017. Ne caldeggiamo vivamente la lettura e la diffusione. Copie del libro possono essere ordinate scrivendo all’Eremo della Beata Vergine del Soccorso, 55034 Minucciano (Lucca), o per quantitativi maggiori scrivendo alle Edizioni Kolbe (info@centrograficostampa.it)]

Che una giovane donna americana, amante della danza e della musica, campionessa di pallavolo, diplomata nel Collegio Albertus Magnus di New Haven, traboccante di vita e di amore della vita, un bel giorno abbandona la famiglia, le conoscenze, il lavoro, le sue abitudini e la patria per andarsene come Abramo alla ricerca di quel “qualche cosa” che segretamente la attira fortemente e del quale ignora ancora il nome, fa gridare ai ragionatori allo scandalo e alla follia.
“Perché questo spreco? Si poteva...” (Mc 14, 4-5).

Giulia Crotta a trentasette anni ha finalmente intravisto la sua strada, che concretamente troverà essere una stretta cella solitaria, un reclusorio nel centro di Roma, nel quale vivrà per quarantaquattro anni, completamente nascosta, ritirata, ignorata.

Prende il nome di Maria Nazarena di Gesù, senza dubbio riferendosi al Cristo di Nazaret, che per trent’anni si è nascosto agli occhi di tutti in questa borgata della quale sorridendo si diceva: “Niente di buono può uscire di là”.

Appartiene a quegli esseri che non sono fatti per la terra, perché hanno occhi troppo grandi, un cuore ipertrofico. Nessuno spettacolo del mondo, nessuna visione, per quanto sia bella, li può attirare; nessun amore, per quanto tenero, li può catturare.

Essi sono fatti per l’Immenso, per l’Infinito, per Colui che solo “È”. Voi li chiamate nomadi di Dio, pellegrini, avventurieri del Cielo. Tuttavia sono lontani dallo stimarsi e a maggior ragione, dal disprezzare la realtà della terra, i tesori della vita, ma come lo confessa uno di loro, San Pier Damiani questi sono dei “paradisi troppo piccoli” per la capacità del loro essere: abbisognano del “Tutto” e per sempre. Se non ci lasciano, ci appaiono, sicuramente, stranieri, perché vivono altrove e se ci abbandonano, se partono sulle strade del mondo o si nascondono nel silenzio del deserto è perché vivono il loro Esodo, in cerca del Santo Graal, della perla preziosa, di Colui che è il Tutt’altro e al di là di tutto.
Nazarena un bel giorno si è sentita chiamare ad andarsene, a sparire, non soltanto entrando in un monastero “isolato”, come si dice, non soltanto vivendo da eremita nei boschi o sulla montagna, ma di ritirarsi in un reclusorio, una sorta di tomba, dalla quale non uscirà mai, dove nessuno potrà entrare, dove non saranno possibili le relazioni con il mondo se non attraverso una finestrella ricoperta di un velo spesso. Questo non vuol significare che Nazarena ricusi i suoi fratelli, aborrisca l’umanità, si ritiri dalla sua storia spesso così tragica ma, al contrario, ella si pone nel cuore del mondo.
Un giorno scriverà: “Possa io realizzare il mio sogno, vivere e morire solitaria, sconosciuta da tutti e proclamare la Buona Novella che Dio mi domanda di gridare da questa cella, “Dio solo basta!” Da questo reclusorio, mi sarà senza dubbio possibile di passare immediatamente al Paradiso. D’accordo. Vorrei andarvi conducendo con me, un giorno o l’altro, tutti quelli che potrò aver aiutato con le mie povere preghiere e la mia penitenza”.
Evidentemente non tutti comprenderanno il gesto folle di questa donna affascinata da Dio, che perdurerà quarantaquattro anni senza interruzione, se non un breve soggiorno in clinica.

La maggior parte fra noi è sorpresa per la stranezza di questa vita, per la sua grande austerità, ma anche per la gioia che invade sempre più la nostra reclusa, una figlia dell’uomo all’apparire della festa di San Romualdo di Ravenna [1].
Non è un caso patologico? Non è in flagrante contraddizione con il Vangelo di Gesù Cristo e la comunione d’amore che sarà il distintivo dei suoi discepoli? La parabola del grano che muore e porta molto frutto...
Tuttavia Nazarena non è un caso unico, assolutamente eccezionale nella storia. All’inizio dell’era monastica, incontriamo uomini e donne che si sono murati per un motivo o per un altro, “per amore, dicono, della libertà di un altro” [2] e nessuno ignora che nel Medio Evo, non è raro scoprire, vicino ad un monastero o ad una chiesa parrocchiale, un reclusorio d’amore dove vive un monaco, una monaca, un prete o un laico. Presenza silenziosa di preghiera continua, di “Vita Angelica”, parte integrante della comunità o della parrocchia, come un gioiello nel suo scrigno.
Ricordiamo, per esempio, la piccola sorella d’Aelredo di Rievaux, alla quale suo fratello dedicherà tutto un libro che è un tesoro. Ella glielo ha domandato insistentemente per condurre in porto nella verità e nella fedeltà la sua esistenza apparentemente contro natura, che va a schiudersi in una profonda e radiosa felicità [3].
Nazarena è sua sorella, dopo otto secoli, condotta da Dio attraverso i meandri, come vedremo, alla scuola d’amore di Romualdo, il folle di Dio che, a più riprese durante la sua vita solitaria, si è rinchiuso nel suo reclusorio per rispondere ad una insopportabile ferita d’amore e portare a Dio il terribile secolo di ferro quale è il suo.
Egli ha iniziato un movimento forte e magnifico di uomini e di donne che come lui si sono rinchiusi nella loro cella solitaria a Camaldoli, sul Monte Corona e altrove.

Circa cinquant’anni dopo la morte dell’eremita - profeta, il suo successore alla guida della piccola colonia di eremiti che vivono nascosti nella montagna, ci dirà, come tra i fratelli “alcuni si elevano sulle ali della contemplazione di Dio, all’amore della patria celeste, fissandovi gli occhi del loro spirito e, già quaggiù, gustarono un’ineffabile dolcezza d’amore. Essi si rinchiusero allora nella loro cella e vi rimasero fino alla morte, sostenuti dalla grazia di Dio, in un combattimento continuo contro l’Avversario... Altri soltanto per il tempo di due Quaresime, con lo scopo di passarlo in un silenzio totale e in una più grande austerità di vita.
Altri per un centinaio di giorni o ancora per un anno intero... dando una luminosa testimonianza e rivaleggiando tra loro nell’amore di Dio, nell’obbedienza e con tutte le virtù. Essi avevano sotto gli occhi gli esempi del venerabile Romualdo, osservante con fervoroso degli usi e costumi del Santo Eremitaggio” [4].
La tradizione si è mantenuta durante i secoli presso i figli e le figlie di Romualdo e ancora oggi, la Congregazione di Monte Corona, si onora in segreto di molti reclusi che si ignorano, ma che permettono al nostro mondo di non sprofondare nel nulla [5].
Nazarena si riannoda perfettamente con questi uomini e queste donne che sono stati chiamati a vivere letteralmente le parole di San Paolo indirizzate a chiunque si è rivestito di Cristo nel giorno del battesimo: “La vostra vita è nascosta con il Cristo in Dio” (Col 3, 3).
Dopo una prova infruttuosa al Carmelo, le cui radici eremitiche avrebbero potuto permetterle di realizzare la sua vocazione, Nazarena bussa alla porta del monastero di Sant’Antonio il Grande, in pieno centro di Roma, sulla collina dell’Aventino.
Grazie alla grandezza d’animo della badessa e della sua comunità, può vivervi in reclusione, subito a titolo privato, poi completamente incorporata nell’Ordine camaldolese. Non si pensi che si tratti di un’esistenza larvale. La preghiera continua, lo studio, il lavoro manuale (in certi momenti dieci ore al giorno), la celebrazione dell’ufficio divino in nome di tutta la Chiesa del mondo e di tutta la creazione, fa della cella di Nazarena un luogo di convegno pieno di gioia e di angoscia e di combattimento con l’Angelo di Jahvè e con l’Angelo delle tenebre...
Tutto questo vissuto, giorno dopo giorno, per quarantaquattro anni. Ciò sembra incredibile.
Ma il risultato è là: una gioia indicibile che invade tutto l’essere di Nazarena e che fa di lei una presenza di cielo. “Dio, scrive, mi ha dato una felicità così bella e così pura che non la cambierei per tutti i piaceri del mondo... Sento più che mai la gioia misteriosa della Presenza e di questa forza invincibile che mi attira lontano da tutto e da tutti per scalare la montagna solitaria di Dio”.
Si potrebbe pensare allora che a poco a poco vi sia la dimenticanza totale della terra, degli uomini, della loro storia così difficile con tutto quello che comporta di bello, di spaventoso. Non è così. Nazarena come Macario il Grande, come San Simeone il Nuovo Teologo, come Pier Damiani o il beato Paolo Giustiniani, suo fratello, è cosciente di essere nel cuore del Mistero di Fede che è la Pasqua del Cristo e, in Lui e per Lui, di dare la sua vita per i fratelli, dei quali nessuno è straniero.
Ha per essi, sul cuore di Dio, i diritti dell’Unico; e capisco che il papa Paolo VI e Giovanni Paolo II abbiano voluto visitarla, sedersi vicino a lei ed affidarle il popolo di Dio. Essi conoscevano bene la sua importanza eccezionale nella vita del mondo, come quella di tutti quegli “uomini nobili” dei quali parla Taulero, che si sono identificati per un motivo o per un altro (penso a Teresa di Lisieux, a Marta Robin), all’Agnello di Dio che porta e cancella i peccati del mondo. Tuttavia potremmo ancora chiederci il motivo di questo totale nascondimento, di questo totale ritiro dalle relazioni umane che sembrano fare parte integrante della nostra vita di uomini e di cristiani. Pensiamo, per esempio, che alcune suore del monastero nel quale vive la nostra reclusa non videro il suo volto se non nel giorno della sua morte... Uno dei miei grandi amici, eremita camaldolese, ci dirà, al termine del nostro piccolo libro, con l’autorità dell’esperienza, la sua visione dal di dentro.
Ma ad ogni modo, poiché ogni uomo è fondamentalmente solo e spesso anche recluso, senza volerlo, in mezzo agli altri, Nazarena ci può aiutare a sollevare il velo di un mistero che alcuni considerano come un’abominazione, mentre si tratta possibilmente d’una stupefacente avventura d’amore.

[1] Cf. L.-A. Lassus, San Romualdo eremita profeta.
[2]  Espressione cara a San Pier Damiani, che troviamo, per esempio, all’inizio dell’Opuscolo
 XI indirizzato a Don Leon, recluso per amore della libertà celeste.
[3]  Aelredo di Rievaulx, Regola della reclusa, Edizioni Cantagalli, Siena.
[4]  Beato Rodolfo, 4° priore di Camaldoli, Regola della vita eremitica, in Consuetudo camaldulensis, Firenze 2004.
 Le “due Quaresime”: molte consuetudini monastiche del X e XI secolo parlano di queste due Quaresime di monaci e di eremiti, l’una andando dalla festa di San Martino (11 novembre) fino al Natale, l’altra corrispondente alla Quaresima della Chiesa.
[5]  La congregazione degli eremiti camaldolesi di Monte Corona è nata nel 1524 dal desiderio del beato Paolo Giustiniani, allora superiore dell’eremitaggio di Camaldoli, di ritrovare la purezza e la semplicità della vita solitaria romualdiana e di donarle un nuovo slancio. La reclusione vi sarà e vi è tuttora tenuta in onore: cf. Jean Leclercq, Un umanista eremita. Il beato Paolo Giustiniani 1476-1528, Edizioni Scritti monastici, Praglia. Il beato Paolo Giustiniani, Regola della vita eremitica, Edizioni dell’eremo Monte Rua, e L’opera legislativa del beato Paolo Giustiniani concernente la santa istituzione dei reclusi camaldolesi, in Collectanea Cisterciensia, 1 (1992), in francese.

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giovedì 13 aprile 2017

Summorum Pontificum: la fonte del futuro

Dal 29 marzo al 1° aprile 2017 si è svolto a Herzogenrath – nella regione urbana di Aquisgrana, in Germania – il simposio Quelle der Zukunft («La fonte del futuro»), nel decimo anniversario della pubblicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum di Papa Benedetto XVI, che contiene le indicazioni giuridiche e liturgiche per la celebrazione della messa in latino, celebrata secondo il Messale Romano promulgato da san Pio V. Il simposio è stato organizzato dall’Associazione Una Voce-Germania, dal Circolo cattolico di sacerdoti e laici delle Archidiocesi di Amburgo e Colonia, dall’Associazione Cardinal Newman, e dalla Rete di sacerdoti della parrocchia cattolica di Santa Gertrude a Herzogenrath. Per sopraggiunti impegni, S. Em. il card. Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, non ha potuto intervenire di persona, ma, con i ringraziamenti agli organizzatori, ha inviato un’ampia relazione introduttiva, di prossima pubblicazione sulla rivista Studi cattolici (n. 674, aprile 2017, pp. 244-249). Con il permesso della direzione della rivista Studi cattolici, che ringraziamo, siamo lieti di offrire qui di seguito, in anteprima per i lettori di Romualdica, il testo integrale della relazione del card. Sarah (il titolo e i sottotitoli sono redazionali).

Restaurare la liturgia

Quello che, dall’inizio del XX secolo, viene chiamato «movimento liturgico» è scaturito dalla volontà del papa san Pio X, espressa nel Motu proprio «Tra le sollecitudini» (1903), di restaurare la liturgia per renderne più accessibili i tesori, facendola quindi tornare a essere fonte di vita autenticamente cristiana. Da qui la definizione della liturgia come «culmine e fonte della vita e della missione della Chiesa» espressa nella Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium del Vaticano II (cfr n. 10).
Non ripeteremo mai abbastanza che la Liturgia come fonte e culmine della Chiesa trova il suo fondamento in Cristo stesso. Infatti, nostro Signore Gesù Cristo è Sommo ed Eterno Sacerdote della Nuova ed eterna Alleanza, dal momento che si è offerto in sacrificio, e «con un’unica offerta ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati» (Eb 10, 14). Come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, «questo mistero di Cristo la Chiesa annuncia e celebra nella sua liturgia, affinché i fedeli ne vivano e ne rendano testimonianza nel mondo» (n. 1068). È nel contesto del «movimento liturgico», del quale uno dei più bei frutti è la Costituzione Sacrosanctum Concilium, che conviene considerare il Motu Proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, del quale siamo lieti di celebrare quest’anno, con grande gioia e riconoscenza, il decimo anniversario della sua promulgazione. Possiamo dunque affermare che il «movimento liturgico», avviato da san Pio X non si è mai interrotto, e continua ancora oggi per l’impulso conferitogli da papa Benedetto XVI. A questo proposito, possiamo ricordare la particolare cura e l’attenzione personale, di cui egli dava prova nel celebrare la sacra Liturgia da Papa, nonché i frequenti riferimenti nei suoi discorsi alla centralità della liturgia nella vita della Chiesa e, infine, i suoi due documenti magisteriali: Sacramentum Caritatis e Summorum Pontificum. In altre parole, il cosiddetto «aggiornamento liturgico» è in qualche modo completato dal Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Di che cosa si tratta? Il Papa emerito ha stabilito la distinzione tra due forme dello stesso rito romano: una forma chiamata «ordinaria» con i testi Liturgici del Messale Romano rivisto seguendo le indicazioni del Concilio Vaticano II, e una forma «straordinaria», che corrisponde alla liturgia in vigore prima dell’«aggiornamento» liturgico. Così ora, nel rito romano o latino, sono in vigore due Messali: quello del Beato papa Paolo VI, la cui terza edizione è del 2002, e quello di san Pio V, la cui ultima edizione, promulgata da San Giovanni XXIII, è del 1962.

Per un reciproco arricchimento delle due forme

Nella lettera ai vescovi che accompagna il Motu Proprio, papa Benedetto XVI ha dichiarato che la sua decisione di far coesistere entrambi i messali non aveva solo lo scopo di soddisfare il desiderio di alcuni gruppi di fedeli, legati alle forme liturgiche prima del Vaticano II, ma anche per permettere un arricchimento reciproco delle due forme dello stesso rito romano, vale a dire non solo la convivenza pacifica, ma anche l’opportunità di sviluppo, evidenziando i migliori elementi che li caratterizzano. Ha scritto chiaramente che «le due forme dell’uso del rito romano possono arricchirsi a vicenda: nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi. Nella celebrazione della Messa secondo il Messale di Paolo VI potrà manifestarsi, in maniera più forte di quanto non lo è spesso finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso». È dunque in questi termini che il Papa emerito manifestava il suo desiderio di rilanciare il «movimento liturgico». Nelle parrocchie dove è stato applicato il Motu Proprio, i sacerdoti testimoniano un aumento di fervore sia tra i fedeli sia tra i sacerdoti. Si è anche notata una ripercussione e un’evoluzione spirituale positiva nel modo di vivere le celebrazioni eucaristiche secondo la forma ordinaria, in particolare la riscoperta di atteggiamenti di adorazione verso il Santissimo Sacramento: stare in ginocchio, genuflessione... e anche un più grande raccoglimento caratterizzato dal sacro silenzio che deve segnare i momenti salienti del Santo Sacrificio della Messa, per consentire a sacerdoti e fedeli di interiorizzare il mistero della fede che viene celebrato. È anche vero che bisogna fortemente incoraggiare e fare opera di formazione liturgica e spirituale. Analogamente, bisognerà pro- muovere una pedagogia perfettamente adatta a superare un certo «rubricismo» troppo formale, spiegando i riti del Messale tridentino a coloro che ancora non lo conoscono o lo conoscono in modo parziale, o a volte... di parte. Per questo, è urgente e opportuno predisporre un messale bilingue latino-volgare per una piena, consapevole e intima partecipazione dei fedeli alle celebrazioni eucaristiche. È anche molto importante sottolineare la continuità tra i due messali con catechesi liturgiche appropriate... Molti sacerdoti testimoniano che si tratta di un compito stimolante, perché sono coscienti di lavorare al rinnovamento liturgico, portando la propria pietra al «movimento liturgico», cioè, in realtà, al rinnovamento spirituale e mistico, e dunque missionario, voluto dal Concilio Vaticano II, e al quale ci invita con vigore papa Francesco.
La liturgia deve sempre essere riformata per essere più fedele alla sua essenza mistica. Ma per lo più, questa «riforma», che ha sostituito il vero «restauro» voluto dal Concilio Vaticano II, è stato realizzato con uno spirito superficiale e sulla base di un unico criterio: sopprimere a tutti i costi un patrimonio visto come totalmente negativo e obsoleto per scavare un abisso tra un prima e un dopo il Concilio. Invece, basta prendere la Costituzione sulla Sacra Liturgia e leggerla onestamente, senza tradirne il senso, per vedere che il vero scopo del Vaticano II non era di avviare una riforma che potesse diventare occasione di rottura con la Tradizione, bensì, di ritrovare e confermare la Tradizione nel significato più profondo.
In realtà, la cosiddetta «riforma della riforma», che dovrebbe forse essere chiamata più esattamente «reciproco arricchimento dei riti» per usare un’espressione del Magistero di Benedetto XVI, è una necessità prima di tutto spirituale. Essa riguarda evidentemente le due forme del rito romano. La cura particolare da prestare alla liturgia, l’urgenza di tenerla in grande considerazione e di lavorare alla sua bellezza, alla sua sacralità e al mantenimento di un giusto equilibro tra fedeltà alla Tradizione e legittima evoluzione, e dunque rigettando assolutamente e radicalmente ogni ermeneutica di discontinuità e di rottura: questi sono il cuore e gli elementi essenziali di qualsiasi autentica liturgia cristiana. Il cardinal Joseph Ratzinger ha instancabilmente ripetuto che la crisi che scuote la Chiesa, da una cinquantina d’anni, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, è legata alla crisi della liturgia, e quindi alla mancanza di rispetto, alla desacralizzazione e all’orizzontalismo degli elementi essenziali del culto divino. «Sono convinto», ha scritto, «che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia» [1]. Certamente il Vaticano II ha voluto promuovere una maggiore partecipazione attiva del popolo di Dio e far progredire giorno per giorno la vita cristiana dei fedeli (cfr Sacrosanctum Concilium, n. 1). Certamente belle iniziative sono state promosse in quella direzione. Eppure non possiamo chiudere gli occhi di fronte al disastro, alla devastazione e allo scisma che i moderni sostenitori di una liturgia viva hanno causato, tanto da rimodellare la liturgia della Chiesa secondo le loro idee. Hanno dimenticato che l’atto liturgico non è solo una preghiera, ma anche e soprattutto un mistero in cui si realizza per noi qualcosa che non possiamo comprendere completamente, e che dobbiamo accettare e ricevere nella fede, nell’amore, nell’obbedienza e nel silenzio adorante. Questo è il vero significato della partecipazione attiva dei fedeli. Non si tratta soltanto di un’attività esteriore, di una ridistribuzione di ruoli o funzioni nella liturgia, bensì di una ricettività intensamente attiva: la ricezione è in Cristo e con Cristo, l’umile offerta di sé nella preghiera silenziosa, e un atteggiamento pienamente contemplativo. La grave crisi di fede, non solo tra i fedeli, ma anche e soprattutto tra molti sacerdoti e vescovi, ci ha resi incapaci di comprendere la liturgia eucaristica come un sacrificio, come l’identico atto, compiuto una volta per tutte da Gesù Cristo, rendendo presente il Sacrificio della Croce in modo incruento, ovunque nella Chiesa, nei vari tempi, luoghi, popoli e nazioni.
Spesso assistiamo alla tendenza sacrilega di ridurre la santa Messa a un semplice pasto conviviale, alla celebrazione di una festa profana e a un’autocelebrazione della comunità o, peggio ancora, a un intrattenimento mostruoso contro l’angoscia di una vita che non ha più alcun significato o contro la paura di incontrare Dio faccia a faccia, perché il suo sguardo rivela e costringe a guardare con verità la bruttezza della nostra interiorità. Ma la Santa Messa non è un intrattenimento. Essa è il sacrificio vivente di Cristo, morto sulla croce per liberarci dal peccato e dalla morte per rivelarci l’amore e la gloria di Dio Padre. Molti ignorano che il fine di ogni celebrazione è la gloria e l’adorazione di Dio, la salvezza e la santificazione degli uomini, dal momento che, nella liturgia, «viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati» (Sacrosanctum Concilium, n. 7). Questo insegnamento del Concilio è ignorato dalla maggioranza dei fedeli, sacerdoti e vescovi compresi. Così come si ignora che i veri adoratori di Dio non sono coloro che, secondo le loro idee e la loro creatività, riformano la liturgia per farne qualcosa che piaccia al mondo, ma coloro che con il Vangelo, riformano in profondità il mondo, per consentirgli l’accesso a una liturgia che riflette la liturgia celebrata da tutta l’eternità nella Gerusalemme celeste. Come ha spesso sottolineato Benedetto XVI, alla radice della liturgia si trova l’adorazione, e quindi Dio. Quindi deve essere riconosciuto che la crisi grave e profonda che, dopo il Concilio, colpisce e continua a influenzare la liturgia e la Chiesa stessa è dovuta al fatto che il suo centro non è più Dio e il suo culto, ma gli uomini e la loro presunta capacità di «fare» qualcosa durante le celebrazioni eucaristiche. Anche oggi, un numero significativo di ecclesiastici sottovalutano la grave crisi che sta attraversando la Chiesa: relativismo nell’insegnamento dottrinale, morale e disciplinare, gravi abusi, dissacrazione e banalizzazione della sacra liturgia, visione meramente sociale e orizzontale della missione della Chiesa. Molti credono e affermano a gran voce che il Vaticano II ha suscitato una vera e propria primavera della Chiesa. Tuttavia, un numero crescente di ecclesiastici stanno considerando questa «primavera» come un rigetto, una rinuncia al suo retaggio plurisecolare, o addirittura come una sfida radicale al suo passato e alla sua Tradizione. Si rimprovera all’Europa politica di abbandonare o negare le sue radici cristiane. Ma la prima ad aver abbandonato le sue radici e il suo passato cristiano è senza dubbio la Chiesa cattolica post-conciliare. Alcune Conferenze episcopali addirittura si rifiutano di tradurre fedelmente il testo originale latino del Messale romano. Alcuni sostengono che ogni Chiesa locale può tradurre il Messale romano non secondo la sacra eredità della Chiesa, seguendo il metodo e i princìpi stabiliti dalla Liturgiam authenticam (la Quinta Istruzione per la retta Applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II, emanata dalla Congregazione per il Culto divino nel 2001), ma secondo le fantasie, le ideologie e le espressioni culturali che, si dice, possono essere comprese e accettate dal popolo. Ma il popolo vuole essere iniziato al linguaggio sacro di Dio. Perfino il Vangelo e la Rivelazione sono «reinterpretati», «contestualizzati» e adattati alla cultura occidentale decadente. Nel 1968, il vescovo di Metz, in Francia, ha scritto nel suo Bollettino diocesano un’enormità spaventosa, quasi la volontà e l’espressione di una rottura completa con il passato della Chiesa. Secondo questo vescovo, dobbiamo oggi ripensare la concezione stessa di salvezza apportata da Gesù Cristo, poiché la Chiesa apostolica e le comunità cristiane dei primi secoli non avevano capito nulla del Vangelo. È soltanto a partire dalla nostra epoca che abbiamo compreso il disegno di salvezza apportato da Gesù. Ecco l’affermazione audace e sorprendente del vescovo di Metz: «La trasformazione del mondo (cambiamento di civiltà) insegna e richiede un cambiamento nella concezione della salvezza portata da Gesù Cristo; questa trasformazione rivela che il pensiero della Chiesa sul disegno di Dio era, prima di questo cambiamento, non sufficientemente evangelica... Non c’è epoca in grado di comprendere l’ideale evangelico della vita fraterna quanto la nostra» [2]. Con una tale visione, non sono sorprendenti la devastazione, la distruzione e le guerre che seguirono e che persistono tuttora a livello liturgico, dottrinale e morale, perché si pretende che nessun’epoca quanto la nostra sia in grado di capire «l’ideale evangelico».
Molti si rifiutano di vedere l’opera di auto-distruzione della Chiesa con la demolizione pianificata delle sue basi dottrinali, liturgiche, morali e pastorali. Mentre le voci di chierici di alto rango si moltiplicano, affermando ostinatamente i loro manifesti errori dottrinali, morali e liturgici, anche se cento volte condannati, e lavorano alla demolizione della poca fede rimasta nel popolo di Dio, mentre la barca della Chiesa naviga nel mare tempestoso di questo mondo decadente, e le onde si infrangono sulla barca, già quasi piena d’acqua, un numero crescente di ecclesiastici e fedeli grida: «Tutto va ben, madama la marchesa!». Ma la realtà è ben diversa: infatti, come diceva il cardinal Ratzinger, «i Papi e i Padri conciliari si aspettavano una nuova unità cattolica e si è invece andati incontro a un dissenso che – per usare le parole di Paolo VI – sembra essersi spostato dall’autocritica all’autodistruzione. Ci si aspettava un nuovo entusiasmo e ci si è invece finiti troppo spesso nella noia e nello sconforto. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci si è invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è venuto sviluppando in larga misura sotto il segno di un richiamo a un presunto “spirito del Concilio” e in tal modo lo ha screditato» [3]. «Nessuno oggi osa onestamente e seriamente contestare le manifestazioni di crisi e le guerre liturgiche alle quali il Concilio Vaticano II ha portato» [4].
Oggi, si procede alla frammentazione e demolizione del santo Missale Romanum abbandonandolo alle diversità culturali e ai fabbricanti di testi liturgici. Sono contento e mi congratulo per l’enorme e meraviglioso lavoro svolto, attraverso Vox clara, dalla Conferenze episcopali di lingua inglese, dalle Conferenze Episcopali spagnola e coreana, ecc..., che hanno tradotto fedelmente e nel pieno rispetto delle istruzioni e dei princìpi di Liturgiam authenticam, il Missale Romanum, e la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti ha concesso loro la recognitio.

Una guerra liturgica

A seguito della pubblicazione del mio libro Dio o nulla, mi sono state rivolte domande sulla «guerra liturgica», che da decenni troppo spesso divide i cattolici. Ho risposto che si tratta di un’aberrazione, perché la liturgia è il campo per eccellenza dove i cattolici dovrebbero fare esperienza dell’unità nella verità, nella fede e nell’amore, e che, pertanto, è inconcepibile celebrare la liturgia avendo nel cuore sentimenti di lotte fratricide e di rancore. Del resto, non ha Gesù stesso pronunciato parole molto impegnative sulla necessità di riconciliarsi con il fratello prima di presentare il proprio dono all’altare? (cfr Mt 5, 23-24). Perché «la liturgia spinge i fedeli, nutriti dei “sacramenti pasquali”, a vivere “in perfetta unione” [5], e prega che “esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede” [6]; la rinnovazione poi dell’alleanza di Dio con gli uomini nell’Eucaristia introduce i fedeli nella pressante carità di Cristo e li infiamma con essa. Dalla liturgia, dunque, e particolarmente dall’Eucaristia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene con la massima efficacia quella santificazione degli uomini nel Cristo e quella glorificazione di Dio, alla quale tendono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa» (Sacrosanctum Concilium, n. 10). Nel «faccia a faccia» con Dio che è la liturgia, il nostro cuore deve essere puro da ogni inimicizia, il che significa che ciascuno deve essere rispettato nella propria sensibilità. Questo significa concretamente, ribadendo che il Vaticano II non ha mai chiesto di fare tabula rasa del passato e quindi di abbandonare il Messale di san Pio V, il quale ha generato tanti santi – basti citare tre sacerdoti ammirevoli come san Giovanni Maria Vianney, il Curato d’Ars, san Padre Pio e san Josemaría Escrivá –, allo stesso tempo è indispensabile promuovere il rinnovamento liturgico voluto dal Concilio stesso, e quindi i libri liturgici aggiornati dopo la Costituzione Sacrosanctum Concilium, in particolare il Messale del Beato papa Paolo VI. E aggiungerei che ciò che più conta, sia che si celebri nella forma ordinaria o in quella straordinaria, è offrire ai fedeli ciò a cui hanno diritto: la bellezza della liturgia, la sua sacralità, il silenzio, il raccoglimento, la dimensione mistica e l’adorazione. La liturgia deve metterci faccia a faccia con Dio in un rapporto personale e di intensa intimità. Deve immergerci nell’intimità della Santissima Trinità.
Parlando dell’usus antiquior nella lettera d’accompagnamento a Summorum Pontificum, papa Benedetto XVI ha scritto che «subito dopo il Concilio Vaticano II si poteva supporre che la richiesta dell’uso del Messale del 1962 si limitasse alla generazione più anziana che era cresciuta con esso, ma nel frattempo è emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia». Si tratta di una realtà incontestabile, un vero segno del nostro tempo. Quando i giovani sono assenti alla sacra liturgia, dobbiamo chiederci: perché? Dobbiamo vegliare affinché le celebrazioni secondo l’usus recentior facilitino anch’esse questo incontro, conducano le persone sul percorso della via pulchritudinis che conduce al Cristo vivente e operante nella sua Chiesa di oggi attraverso i suoi sacri riti. In effetti, l’Eucaristia non è una sorta di «cena con gli amici», un pasto conviviale della comunità, bensì un Mistero sacro, il grande Mistero della nostra fede, la celebrazione della redenzione compiuta da nostro Signore Gesù Cristo, la commemorazione della morte di Gesù sulla croce per liberarci dai nostri peccati. Conviene dunque celebrare la Santa Messa con la bellezza e il fervore del santo Curato d’Ars, di Padre Pio o di san Josemaría; è questa la condizione sine qua non per giungere «dall’alto», per così dire, a una riconciliazione liturgica [7]. Quindi rifiuto con forza di sprecare il nostro tempo a contrapporre una liturgia a un’altra, o il Messale di san Pio V a quello del beato Paolo VI. Si tratta piuttosto di entrare nel grande silenzio della liturgia, lasciandoci arricchire da tutte le forme liturgiche, latine o orientali. Infatti, senza la dimensione mistica del silenzio e senza spirito contemplativo, la liturgia diverrebbe occasione di lacerazioni odiose, di scontri ideologici e di umiliazione pubblica dei deboli da parte di coloro che affermano di detenere l’autorità, invece di essere il luogo dell’unità e della nostra comunione nel Signore. Così, invece di affrontarci e di detestarci, la liturgia deve farci pervenire tutti insieme all’unità nella fede e alla vera conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino alla misura della pienezza di Cristo... e vivendo la verità nell’amore, cresceremo in ogni cosa tendendo a Lui che è il capo, Cristo (Ef 4, 13-15) [8].

La liturgia «casa comune» o «piccola patria»

Come sapete, il grande liturgista tedesco mons. Klaus Gamber (1919-1989) designava con la parola Heimat la casa comune o «piccola patria», quella dei cattolici radunati intorno all’altare del Santo Sacrificio. Il senso del sacro, che permea e irriga i riti della Chiesa, è correlativo, inseparabile dalla liturgia. Ebbene, in questi ultimi decenni, numerosi fedeli sono stati scossi o profondamente turbati da celebrazioni segnate da una soggettività superficiale e devastante al punto di non riconoscere la loro Heimat, la loro casa comune, e per i più giovani, di non averla mai conosciuta! Quanti se ne sono andati in punta di piedi, soprattutto i più piccoli e più poveri di loro! Essi sono diventati una sorta di «apolidi liturgici». Il «movimento liturgico», nel quale le due forme sono associate, mira a restituire loro l’Heimat, e così a reintrodurli nella loro casa comune, poiché ben sappiamo che nella sua opera di teologia sacramentaria, il cardinal Joseph Ratzinger, ben prima della pubblicazione del Summorum Pontificum, aveva messo in evidenza che la crisi della Chiesa, e quindi la crisi e l’annacquamento della fede, sono in gran parte causati dal modo in cui trattiamo la liturgia, secondo il vecchio adagio: lex orandi, lex credendi. Nella prefazione che egli aveva scritto in apertura del magistrale lavoro di mons Gamber, Die Reform der römischen Liturgie (Riforma della liturgia romana), il futuro Papa Benedetto XVI affermava: «Un giovane sacerdote mi ha detto di recente che ora abbiamo bisogno di un nuovo movimento liturgico. Esprimeva così un’espressione di preoccupazione che, al giorno d’oggi, solo menti deliberatamente superficiali potrebbero scartare. Ciò che contava per il sacerdote non era la conquista di nuove e audaci libertà: quale libertà non ci si è già arrogata? Sentiva che avevamo bisogno di un nuovo inizio scaturito dall’intimo della liturgia, come aveva voluto il movimento liturgico quando era al culmine della sua vera natura, quando non si trattava di fabbricare dei testi, di inventare azioni e forme, ma di riscoprire il centro vivente, di penetrare nel tessuto propriamente detto della liturgia, affinché il compimento di essa scaturisse dalla sua stessa sostanza. La riforma liturgica, nella sua realizzazione concreta, si è sempre più allontanata da tale origine. Il risultato non è stato una rianimazione, ma una devastazione. Da un lato, abbiamo una liturgia degenerata in show, dove si cerca di rendere interessante la religione con l’aiuto di invenzioni alla moda e con aforismi morali seducenti, creando un successo momentaneo nel gruppo dei fabbricanti liturgici, e un atteggiamento di ripulsa ancora più netto tra coloro che cercano nella liturgia non lo showmaster spirituale, ma l’incontro con il Dio vivente davanti al quale ogni “fare” diventa insignificante, solo questo incontro essendo in grado di farci accedere alle vere ricchezze dell’essere. Dall’altro lato, v’è la conservazione delle forme rituali la cui grandezza commuove sempre, ma che, spinte all’estremo, manifestano un isolamento testardo che, alla fine, non lascia che tristezza. Certamente rimangono tra i due estremi tutti quei sacerdoti e fedeli che celebrano la nuova liturgia con rispetto e solennità; ma sono turbati dalla contraddizione tra i due estremi, e la mancanza di unità interna della Chiesa fa sembrare la loro fedeltà, a torto molte volte, come una semplice varietà personale di neo-conservatorismo. Stando così le cose, è necessario, un nuovo impulso spirituale perché la liturgia sia di nuovo per noi un’attività comunitaria della Chiesa, strappata all’arbitrarietà. Non si può “fabbricare” un movimento liturgico di questo tipo – non più di quanto si possa “fabbricare” qualche cosa di vivente – ma possiamo contribuire al suo sviluppo, sforzandoci di assimilare di nuovo lo spirito della liturgia e difendendo pubblicamente quello che abbiamo ricevuto».
Penso che la lunga citazione, così giusta e limpida, dovrebbe interessarvi, all’inizio del Simposio, e anche contribuire ad avviare il vostro pensiero sulla «fonte del futuro» (Die Quelle der Zukunft) del Motu Proprio Summorum Pontificum. In effetti, permettetemi di trasmettervi una convinzione che da molto tempo mi sta a cuore: la liturgia romana, riconciliata nelle sue due forme, che a sua volta è «il frutto di uno sviluppo», secondo le parole di un altro grande liturgista tedesco, Joseph Jungmann (1889-1975), può lanciare il processo decisivo del «movimento liturgico» che tanti sacerdoti e fedeli attendono da lungo tempo. Da dove cominciare? Mi si permetta di offrire le tre tracce riassunte in queste tre lettere: SAF, Silence - Adoration - Formation in francese e in italiano; in tedesco, SAA: Stille-Anbetung-Ausabilung. In primo luogo, il sacro silenzio, senza il quale non si può incontrare Dio. Nel mio libro La force du silence, ho scritto: «Nel silenzio l’uomo conquista la sua nobiltà e la sua grandezza solo se è in ginocchio per ascoltare e adorare Dio» (n. 66). Poi, l’adorazione; a questo proposito, nello stesso libro esprimo la mia esperienza spirituale: «Per quanto mi riguarda, so che i momenti più grandi della mia giornata si trovano nelle ore incomparabili che passo in ginocchio, al buio davanti al Santissimo Sacramento del Corpo e Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo. Sono come inghiottito in Dio e circondato da tutti i lati dalla sua presenza silenziosa. Non vorrei appartenere che a Dio solo, e immergermi nella purezza del suo Amore. E tuttavia mi rendo conto di quanto io sia povero, così lontano dall’amare il Signore come Egli mi ha amato fino a darsi tutto per me» (n. 54).
Infine, la formazione liturgica, a partire da un annuncio di fede o catechesi che abbia come riferimento il Catechismo della Chiesa Cattolica, ci protegge da possibili elucubrazioni negative più o meno sapienti di qualche teologo assetato di «novità». Ecco quello che ho detto a questo riguardo in quello che è ora comunemente chiamato, non senza un certo umorismo, il «Discorso di Londra» del 5 luglio 2016, pronunciato durante la terza Conferenza internazionale dell’Associazione Sacra Liturgia: «La formazione liturgica è prima di tutto ed essenzialmente un’immersione nella liturgia, nel profondo mistero di Dio, nostro Padre amoroso. Si tratta di vivere la liturgia in tutta la sua ricchezza, per inebriarsi bevendo a una sorgente che non esaurisce mai la nostra sete di ricchezza, ordine e bellezza, di silenzio contemplativo, d’esultanza e di adorazione, della forza che ci permette d’incontrare intimamente Colui che opera nei e attraverso i riti sacri della Chiesa» [9].
È dunque in questo contesto generale e in uno spirito di fede e di profonda comunione con l’obbedienza di Cristo sulla croce che, umilmente, vi chiedo di applicare con grande cura Summorum Pontificum; non in maniera negativa e retrograda, rivolta al passato, o come qualcosa che costruisce muri e crea un ghetto, ma come un importante e significativo contributo all’attuale e alla futura vita liturgica della Chiesa, nonché al «movimento liturgico» del nostro tempo, al quale sempre più persone, particolarmente i giovani, attingono tante cose vere, buone e belle.
Vorrei concludere questa introduzione con le parole luminose di Benedetto XVI pronunciate al termine dell’omelia per la solennità dei Santi Pietro e Paolo, nel 2008: «Quando il mondo nel suo insieme sarà diventato liturgia di Dio, quando nella sua realtà sarà diventato adorazione, allora avrà raggiunto la sua meta, allora sarà sano e salvo».

[1] Joseph Ratzinger, La mia vita, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, pp. 112-113.
[2] Citato da Jean Madiran, L’hérésie du XX siècle, Nouvelles Editions Latines (NEL) 1968, p. 166.
[3] Joseph Ratzinger, Rapporto sulla fede, a cura di Vittorio Messori, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1985, pp. 27-28.
[4] Joseph Ratzinger, Principes de la Théologie catholique, Téqui 1985, p. 413.
[5] Messale romano, orazione dopo la Comunione della Veglia Pasquale e della domenica della Risurrezione [nel Messale di Paolo VI solo nella Veglia].
[6] Messale romano, colletta del martedì nell’ottava di Pasqua [nel Messale di Paolo VI il giorno prima].
[7] Cfr Intervista al sito internet cattolico Aleteia, 4 marzo 2015.
[8] Cfr Intervista a La Nef, ottobre 2016, d.9.
[9] Card. Robert Sarah, “Verso un’autentica attuazione di Sacrosanctum ConciliumTerza Conferenza internazionale dell’Associazione Sacra Liturgia, Londra. Discorso del 5 luglio 2016. Trad. it. in Cristianità, n. 382, ottobre-dicembre 2016, pp. 21-40.

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